3.10.15

Elezioni a Roma. Votate Cicerone (Lidia Storoni)

Nel corso dell'incessante lotta di classe che costituisce la storia di Roma repubblicana, la plebe ottenne gradatamente di partecipare al governo, prima eleggendo i magistrati e poi assumendone, a sua volta, i poteri: questura, pretura, censura, edilizia, tribunato, consolato, cariche tutte annuali e tutte collegiali. Poté anche esprimere il suo parere, per referendum, su proposte di legge che restavano affisse vari giorni affinché tutti potessero prenderne conoscenza e il presentatore avesse il tempo di illustrarle. Esercitava infine le funzioni di Corte d'Appello, essendo in sua facoltà commutare la pena di morte in esilio se il reo, valendosi della provocatio, si appellava al popolo.
Al di sotto dei grandi i Metelli, gli Scipioni, i Claudi, una maggioranza silenziosa esercitava quello che Nicolet ha definito il mestiere di cittadino: una vasta base anonima di coloni, artigiani, commercianti, imprenditori, che forniva alla classe dirigente il suo consenso per mezzo del voto.
Ciò avveniva in due assemblee. Nella prima, residuo dell'antica struttura militare, in cui i cittadini erano raggruppati per censo e per età, essi venivano suddivisi in unità elettorali dette centurie (e votavano nei comizi centuriati); la seconda comprendeva tutti gli italiani, divisi in quattro tribù urbane e trentuno rurali, che votavano nei comizi tributi, attraverso rappresentanti residenti a Roma. Contava il voto non dei singoli, ma delle tribù. I rappresentanti degli elettori si recavano l'uno dopo l' altro, separati da corde, a deporre in una cesta controllata da un custode la tavoletta di legno cerato sulla quale avevano tracciato il loro consenso (o diniego) a una legge o a una sentenza, oppure il nome d' un candidato. L'ultimo tratto lo percorrevano su una passerella collocata bene in vista affinché tutti potessero controllare che non ricevevano suggerimenti, pressioni o bustarelle. Il candidato attendeva poco lontano che l'araldo proclamasse il nome del vincitore; la sua toga di lana quel giorno era stata imbiancata con il gesso, affinché fosse riconoscibile da lontano (donde il nome candidato).
Durante le campagne elettorali, naturalmente, si verificavano attacchi ai rivali, lusinghe, promesse, e magari - nonostante i divieti - largizioni agli elettori: le analogie tra i costumi dell' antica Roma e i nostri sono più spiccate che quelle con momenti del passato più vicini a noi. L'editore Salerno ha pubblicato il Manualetto di campagna elettorale (a cura di Paolo Fedeli), che contiene sagaci consigli inviati dal fratello Quinto a Cicerone, quando costui si presentò alle elezioni per il consolato del 63 a.C. Siamo nell'anno precedente, il 64 e fors'anche il 65 a.C., alla vigilia del memorabile consolato durante il quale, quasi allo scadere del mandato (novembre del 63 a.C.), Cicerone sventerà la congiura di Catilina, pronunciando le famose quattro orazioni dette Catilinarie (fino a quando, Catilina...). Fu il momento più alto della sua carriera, instancabilmente rievocato e celebrato. Gli costò l'esilio e la distruzione della casa l'aver condannato a morte i congiurati senza appello, ma conquistò anche una gloria che egli riteneva pari o addirittura superiore a quella di Pompeo: cedant arma togae, si inchinino le armi davanti alla toga, scrisse nell'unico suo verso pervenuto fino a noi.
La presentazione di questo breve testo porta la firma d'un autorevole personaggio che di successi elettorali se ne intende: l'on. Giulio Andreotti. Nel fratello di Cicerone Andreotti riconosce un agente elettorale accorto, fantasioso, intraprendente, spregiudicato fino al cinismo: niente, direi, rispetto a Cicerone stesso, il quale, alla vigilia di decadere dal mandato, quando uno dei candidati alla sua successione era Catilina, già sconfitto in due precedenti elezioni, assunse la difesa dell'altro, Lucio Murena, il quale rischiava d'esser escluso dalla candidatura per una denuncia di brogli elettorali: proprio il reato di cui Cicerone aveva aggravato la pena con una legge (la Lex Tullia de Ambitu) che porta il suo nome. Quell'arringa richiedeva una spregiudicatezza non comune.
Il curatore del manualetto, Paolo Fedeli, ne offre una eccellente illustrazione e ne chiarisce le finalità. Secondo lui, Quinto si sarebbe proposto di fornire una serie di istruzioni da un lato a Cicerone stesso sulla tattica da tenere durante la campagna elettorale, dall'altro ai suoi fiancheggiatori, affinché potessero aiutarlo efficacemente... Al di là del destinatario immediato, Quinto ha in mente un pubblico più ampio: i membri dell'aristocrazia che, in un momento di estremo pericolo per lo Stato, devono sentir l'obbligo di sostenere l'unico candidato capace di offrire solide garanzie ai fini del mantenimento del quadro istituzionale e della lotta per la salvaguardia della Repubblica: anche se tale candidato è un homo novus, cioè il primo della sua famiglia che, diventando console, sarebbe entrato a far parte della nobilitas. Era questa la cerchia esclusiva, composta di superbi possessores, detentori di cariche lucrose; la classe alla quale abbandonato l'atteggiamento popolare che sembrava il suo quando aveva pronunciato le orazioni contro Verre Cicerone era ormai totalmente devoto (eppure, con il passare degli anni, denuncerà l'edonismo, l'insensibilità morale di quei nobili: non pensano ad altro, scriverà, che alle loro ville, ai poderi, alle collezioni d'arte.... E, amaramente consapevole della propria acquiescenza: non sono più libero di pensare, neppure di odiare...).
Secondo Paolo Fedeli, dunque, più ancora che al candidato l'opera è indirizzata ai suoi sostenitori influenti; e, nel riferire le opinioni di quegli studiosi che ne mettono in dubbio l'autenticità e la ritengono un centone composto uno o più secoli più tardi, si allinea al giudizio di quanti la credono effettivamente ciò che appare: una serie di consigli utili al candidato di quegli anni turbolenti, come del resto a quelli di tutti i tempi: esser sempre accessibile, affabile, generoso, largo di promesse, disposto a frequentare persone che da privato non si sognerebbe di praticare (ma il candidato, risulta chiaro, è una specie umana diversa dall'uomo comune); evitare invece tutti coloro che non servono al fine supremo, riuscire eletto.
Ragioni validissime da ambo le parti, fondate su approfondite analisi storiche e filologiche, dalle quali si ricavano argomenti pro e contro l'autenticità dello scritto. Ebbene, ragioniamo da profani, semplicemente col buon senso: che un fratello si faccia zelante consigliere d'un candidato è plausibile; ma c'è bisogno di pubblicare i propri consigli? Che gli suggerisca di tener d'occhio determinati ambienti e non compromettersi con altri, di non sbilanciarsi con programmi troppo circostanziati, di circondarsi di gente che lo accompagni al foro e si affolli nella sua casa, sempre aperta, anche nel cuor della notte; che lo esorti a viaggiare nelle province e a parlare con tutti, e rammentando ad alcuni il debito di gratitudine che hanno verso di lui, ad altri promettendo benefizi futuri, sta bene, è possibile. Ma non è chiaro che giovi alla sua causa mettere in piazza tutte queste manovre; e ancor meno che serva a convincere i notabili che Cicerone, lui solo, saprà salvarli, nell'imminenza del golpe (che per la verità Catilina, messo alle strette, tenterà solo un anno e mezzo dopo). Che il console fermo, deciso, provvidenziale sarà lui lo si vedrà a cose fatte, non prima, e il colpo di Stato, un anno o due prima, non era prevedibile.
Del resto, Cicerone aveva proprio bisogno d' essere guidato? A parte la sua notevole disponibilità, non c'è candidato che non sia preparato, ancora oggi, a lunghi mesi di fatiche sfibranti: fare buon viso a persone d'ogni risma, stringere migliaia di mani, baciare centinaia di bambini, ingollare innumerevoli caffè e aperitivi, presenziare a inaugurazioni, funerali e battesimi, esser testimone a nozze, promettere posti, scrivere raccomandazioni che sa perfettamente inutili, subire, infine, i ricordi di scuola di ex compagni di classe: classe che, a giudicare dal loro numero, doveva essere composta di duemila alunni.


“la Repubblica”, 10 maggio 1988  

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