1.10.15

L'ultima ora del condannato a morte. Un racconto di Louis Pergaud

Louis Pergaud
Nato nel 1882 a Belmont, una piccola località di campagna nel Doubs, Louis Pergaud, dopo avere frequentato la «école normale» di Besançon, cominciò a insegnare e nel 1904 pubblicò un libro di poesie, «L'Aube». Si cimentò subito dopo con la prosa, con il racconto. Scriveva, almeno in apparenza, per gli adolescenti: storie di animali, di bambini, di ragazzi. Nel 1910 vinse il Goncourt con la raccolta di novelle De Goupil à Margot, uscita l'anno prima. Seguirono La revanche du corbeau (1911), La guerre des boutons (1912) e Le roman de Miraut (1914). 
Alla vigilia della prima guerra mondiale lo scrittore consegnò al “Mercure de France” Les rustiques e subito dopo, il 3 agosto 1914, Pergaud venne chiamato sotto le armi a Verdun. Nella notte fra il 7 e l’8 aprile 1915 scomparve nei pressi di Marcheville e il suo corpo non fu mai ritrovato. 
In Italia La guerra dei bottoni è stato pubblicato diverse volte: l’edizione Einaudi del 2003 fu curata da Laura Pugno, che è traduttrice anche della straordinaria novella qui postata, che ha come protagonista un tasso e racconta una tragica e feroce caccia dal punto di vista della preda. È tratta dalla raccolta postuma La vie des bètes : études et nouvelles, pubblicata in Francia nel 1923 e in Italia ancora inedita. (S.L.L.)

I cacciatori dalle zampe lunghe, con i loro bastoni di morte, e la familiare orda di cani urlanti si erano appena fermati, dopo una breve salita, e con grida tremende e urla basse e roche - risa e latrati - davanti al buco in cui Tasson, il vecchio tasso, aveva fatto la sua tana da quattro o cinque nevicate a quella parte. Nel rifugio, Tasson era in ascolto. La terra, sotto quei gran colpi di martello, tremava, e le vibrazioni che gli giungevano, contrariamente a quanto era successo in tutte le cacce precedenti, non si attenuavano: sembravano anzi amplificarsi, divenire più potenti, più intense, più forti. La situazione, senza dubbio, era grave.
Di solito, quando il nuovo giorno lo sorprendeva all’aperto e gli giungevano rumori inquietanti, richiami di cacciatori o uggiolar di cani, filava via per i sentieri sui sassi su cui le sue zampe non lasciavano traccia e riguadagnava, dopo qualche prudente deviazione, la sua casa nella roccia. Allora sentiva lo scalpicciare della caccia che di colpo arrivava dalle parti della sua dimora, e le vibrazioni che scorrevano lungo il suolo, mescolate alle raffiche di latrati; ma presto tutti quei rumori si fondevano, si diluivano, si dividevano come se il grande fiume d’odio che gli stava alle costole si fosse diviso, a poco a poco, in un’infinità di minuscoli ruscelletti sonori che a loro volta sarebbero stati inghiottiti dalla solenne tranquillità della foresta e del mattino.
Ma stavolta si era forse attardato troppo. Prima di rientrare precipitosamente nel suo buco aveva sentito la terra tremare, rumori di falcata e degli strani richiami, le grida degli zampelunghe, gli sputafuoco che di solito portano al guinzaglio, per i sentieri del bosco, i loro famigli abbaianti e dal lungo vello, i cani. Non si trattava più solo di vibrazioni, erano dei colpi, eco di passi, colpi di tossi, voci improvvise, grida intraducibili e ansiti mescolati a odori forti e mefitici, che dal canale d’ingresso della sua dimora giungevano fino a lui. Erano alla porta: avevano scoperto la sua tana.
Tasson, dal fondo del suo rifugio, avanzò lungo il corridoio e si avvicinò all’entrata tanto quanto la sua naturale prudenza gli permetteva. I cani lì fuori, sentendo il suo odore, abbaiarono con furia. Anche il vecchio tasso respirò il loro odore riempiendosene le narici e il suo musetto appuntito, che fremeva, con una specie di riso animale, di muta soddisfazione, passò la lingua sulle sottili labbra nere.
Le palle di pelo non ce l’avrebbero fatta a entrare. Non potevano, avevano zampe troppo lunghe, gli uomini come i cani. Tasson si tranquillizzò. L’autunno stava per finire, e lui era grasso, poteva attendere e digiunare giorni interi: gli altri si sarebbero sicuramente stancati.
Tasson sapeva che la notte era dalla sua parte, e l'oscurità e la fame li avrebbero piegati e fatti tornare alle loro case e che il sonno li domina ben più che le bestie selvatiche. Sapeva tutto questo, il vecchio tasso, e molte altre cose ancora: che in un canale stretto come il corridoio di casa sua, poteva aggredire la prima bestia latrante che avesse osato avventurarsi nelle tenebre a lui familiari e che gli altri ci avrebbero pensato due volte prima di tentare l’assalto quando fosse stato il loro turno. Sapeva anche che la sua tana era perduta e che avrebbe dovuto, non appena di nuovo libero, abbandonare il suo buco, quell’angolo di pace, perché ogni tana che veniva scoperta dagli uomini era traditrice e maledetta, piena di trappole e di pericoli.
Ciononostante il rumore di fuori non accennava a cessare, e all’abbaiare, alle grida, agli echi di passi si mescolavano anche stridori di seghe e scricchiolio di rami.
Che poteva significare tutto quello schiamazzo? Il vecchio Goupil du Fays, che aveva incontrato una notte in una buca del terreno, gli aveva detto che quanto meno l’uomo fa rumore, all'entrata delle tane, tanto più bisogna diffidarne; e la vecchia volpe non parlava certo alla leggera; ma nel caso specifico, quell’eccesso in senso contrario sembrava al tasso altrettanto temibile.
E Tasson, rattrappito sulle sue zampette corte, gli occhi strabuzzati, le narici aperte e frementi, attendeva con pazienza.
Improvvisamente, l’arrivo di una nube soffocante, qualcosa di acre e di impalpabile gli accecò le pupille e gli punse le narici. Istintivamente, indietreggiando, cercò di azzannare, come se un nemico invisibile si trovasse davanti a lui, ma le sue mascelle, spalancate e subito rinserrate, si richiusero l’una sull’altra; non aveva afferrato altro che il vuoto, e il nemico l’accecava sempre più, lo prendeva alla gola, gli frustava le mucose. Più volte di seguito, serrò i denti su quell’avversario misterioso e terribile e alla fine riuscì a socchiudere un poco le palpebre. Allora si rese conto che il canale d'ingresso, che poco prima era limpido, era oscurato da una caligine tiepida, aspra e cattiva, che gli toglieva il respiro e lo faceva indietreggiare fino all'angolo più riposto della tana.

E poi faceva caldo nel suo canaletto di roccia, troppo caldo. Che cos’era quella nuova specie di bruma creata dai cacciatori o dai cani ? Di solito, nelle mattine d’autunno, quella che sale dalla terra è fresca e profumata, ma tutto ciò che emana dagli uomini è veleno e pericolo.
Impossibile arrestare quell’invasione bianca che lentamente e cautamente strisciava verso di lui. Tasson, coraggiosamente, gli mostrò i denti. Chiaramente, il pericolo aumentava. Ciononostante, la foschia velenosa, come se l’atteggiamento risoluto del tasso e i suoi vani tentativi di azzannarla l’avessero impressionata, esitava ad attaccarlo di nuovo. Solo qualche filo di fumo, rasoterra come serpenti irreali, scivolava verso di lui lungo le pareti. Quando si furono fusi nel grigio delle pareti di roccia, Tasson, inquieto, temendo un attacco subdolo, degli imprevedibili colpi di frusta, restò a lungo in posizione d’attacco, con i denti in mostra e gli artigli già pronti.
Ma il vento era a favore dell’animale e invece di favorirne la diffusione, richiamava fuori il fumo che, a poco a poco, sembrò battere in ritirata e scomparve.

Tuttavia, i suoi nemici erano sempre lì fuori. Le voci umane si alternavano ai guaiti, le grida e le risate agli uggiolìi. Il suo buco era ben presidiato: ad avventurarsi nel corridoio e a lanciarsi per le campagne si correva pericolo di morte.
Tasson, paziente, si rattrappì ancor di più sulle zampe ed attese la notte, certo che l’ombra, la sua complice nemica degli umani, gli avrebbe permesso, anche se la sua tana era ancora assediata, di approfittare di un istante di distrazione dei carcerieri per filarsela e sparire nelle tenebre. No, non aveva fame, ed era grasso, e sapeva attendere. Se necessario, sarebbe restato di guardia per giorni e notti, per scegliere il momento giusto, e quando non se lo aspettavano affatto, se la sarebbe svignata alla faccia dei suoi nemici. No, non l’avevano ancora messo nel sacco!
Passò del tempo che non avrebbe saputo misurare, le sue fruizioni digestive erano come sospese e la sua attenzione concentrata all’esterno. Ed ecco che al rumore delle voci si mescolò un altro rumore, secco e duro, a volte acuto e a volte sordo, ma cadenzato, e che risuonava in profondità. Una specie di grande dente di feno, incredibilmente potente, stava lacerando la ter-
ra e la roccia della tana. Sentiva i colpi di piccone abbattersi uno dopo l’altro, e dopo ogni scossa, che corrispondeva a un rauco grido umano, pietre e zolle d’erba rotolavano da parte con un tonfo duro o sordo, a seconda della violenza dello sforzo.
La situazione era ancora più grave.
Tasson, immediatamente, si rese conto, che i suoi nemici non avevano intenzione di aspettarlo, ma che volevano arrivare fino a lui; dunque, per evitarli, bisognava fuggire, costi quel che costi. Risolutamente, con denti e artigli, attaccò la terra per allungare il canale d’accesso della tana e orientare una via di fuga, prima più in profondità e poi verso l’alto.
Ma i colpi di zappa e di piccone risuonavano sempre più forti all’entrata del sotterraneo; si fermò ad ascoltare. Sì, i colpi proseguivano, i latrati e le grida continuavano e, constatazione più grave, la luce complice degli uomini entrava a fiotti nel corridoio, come per guidare i suoi nemici e rivelargli la posizione della loro pietra.
Tasson, pietrificato, capì che non avrebbe fatto in tempo a scavare un nuovo tunnel di uscita. D’altro canto, l’imboccatura del corridoio, così allargata, consentiva ora ai cani di passare; il pericolo si concentrava ora da quel lato; bisognava stare in guardia per farvi fronte, se fosse stato necessario.
Gli occhi fiammeggianti, furibondo, pronto a ferire, si voltò. Ma i cani non si azzardavano ancora. Prudenti, i padroni li trattenevano presso di sé.

Per un attimo, i colpi di piccone cessarono di martellare la roccia. Tasson ritrovò la speranza. Forse gli uomini si erano stancati? Forse anche loro si scoraggiavano come a volte capitava anche a lui, durante gli agguati che duravano troppo a lungo. Ma la sua speranza fu di breve durata.
Presto, nel canale d’accesso, una lunga pertica di legno verde avanzò a tentoni, dolcemente, come per cercarlo, per sondare la profondità, per scoprirlo, certo, e forse per colpirlo. La vide venire, urtando lungo le pareti, raddrizzandosi, cercando la rotta come il braccio di un cieco, e quando gli fu davanti, pronta a toccarlo, preso da una furia improvvisa gli saltò sopra, l’azzannò violentemente, con tutti i denti, serrando le mascelle per stritolarla, gli occhi rossi di rabbia.
Visto che osava venire, avrebbe scoperto quanto male potevano farle i suoi denti! E come se quel morso le avesse fatto veramente male, la pertica di legno, con la corteccia scorticata, si ritirò, mentre all’entrata della tana le grida e le risate raddoppiavano d’intensità.

Tasson si disse che gli uomini dovevano essere rimasti delusi, visto che gridavano così forte, e se ne rallegrò; e pensò anche che il loro attacco era meno pericoloso di quanto non avesse temuto, dato che con un solo morso aveva avuto ragione del loro alleato e l’aveva fatto fuggire.
Ma i colpi di piccone ripresero, si avvicinarono, si fecero più distinti, ed ecco che di nuovo il braccio di legno venne a tormentarlo nel suo rifugio. Con ancor più foga e violenza, ben deciso a farla finita, gli si scagliò di nuovo addosso e l’azzannò, l’attanagliò, la stritolò sotto le mascelle; ma questa volta la pertica si difese, gli si rigirò in bocca e cercò di tirarlo in avanti, cercò di rovesciarlo su un fianco e con tanta abilità che dovette mollare la presa. E prima di ritirarsi, bruscamente, gli si scagliò addosso un colpo e gli assestò in pieno petto un colpo di punta che non riuscì né a prevedere né a evitare, e che gli mozzò il fiato.

Decisamente, i suoi morsi al nemico non avevano fatto alcun male; i suoi attacchi si facevano a ogni istante più pericolosi. Tasson doveva stare attento.
E i colpi continuavano a tuonare, e la terra e le pietre a rovinare, e la luce entrava, e i colpi di passi, le grida e l’abbaiare si facevano sempre più vicini.
Finché, dopo uno smottamento più forte, Tasson vide... stivali d’uomini e zampe inquiete degli animali, e gambe come tronchi di quercia, e zampe, innumerevoli zampe di cani che passavano e ripassavano e ritornavano ancora sui loro passi. Uno sciame di nemici, una folla di assassini che lo spiavano, pronti a saltargli addosso come fosse apparso. E la notte su cui aveva contato, la notte che non arrivava! Come fare? Molto presto, parecchi di loro avrebbero potuto sfondare l’ingresso! I colpi continuavano a piovere.

Come si fermarono, i cani si scagliarono verso la tana, con gli occhi iniettati di sangue, ansimando violentemente e abbaiando di rabbia. Tasson emise un ringhio sordo. I cani lo videro. Uno di loro, il più ardito, passò davanti agli altri. Il tasso, con i denti scoperti, era pronto all’attacco; davanti alla minaccia dei suoi canini enormi, il cane esitò. Due avversari terribili si misuravano. Ma richiamato dal suo padrone, il cane, obbediente, indietreggiò, con gli occhi sempre fissi sul nemico.
Tasson sentì gli uomini gridare più forte. Il suono argentino delle batterie dei fucili che venivano armati gli sembrò un rintocco funebre, e quel rumore metallico, che gli ricordava l’uomo e i suoi pericoli, gli diede i brividi e gli fece drizzare i peli sulla schiena.
Una voce riprese, dominando il tumulto: “Tenete i cani e i fucili pronti che lo arpiono”.
E la mano di legno, preceduta stavolta da un uncino grigio come un grande artiglio di ferro, appuntito e ripiegato come un gancio, s’infilò per l’apertura e avanzò verso l’animale. Tutto rannicchiato il tasso la vide venire e si preparò, presentendo che quello era un nemico terribile.
L’arpione si avvicinava, stava per toccarlo, gli sfiorava la spalla Di colpo Tasson l’azzannò, serrò i denti e conficcò gli artigli nel pezzo di ferro. Ma quello, impassibile e invulnerabile, gli si rigirò in gola e scivolò, gelido, sotto la presa dei denti. Cercò di afferrarlo nuovamente, di azzannarlo ancora, di stritolarlo; allora l’altro gli si infilò violentemente in gola, si avvitò su se stesso e poi, affondando di colpo, morse ferocemente le carni dell’animale con il suo uncino d’acciaio e ghermì le mascelle della bestia per non lasciarle più. Tasson fece degli sforzi disperati ma un dolore atroce lo feriva, togliendogli finanche la possibilità di mordere o di urlare, mentre l’arpione di ferro, retto da una mano implacabile, lo trascinava spietatamente verso la luce.

Malgrado il dolore, il tasso comprese che, se usciva alla luce, tra gli uomini e i cani e così ridotto all’impotenza, era perduto. E, irrigidendosi sulle zampe e inarcando la schiena, con le reni tese in uno sforzo disperato, si aggrappò alla terra. Ma invano! Passo dopo passo dovette seguire il crudele arpione che l’aveva uncinato, con la gola sanguinante e il collo spaventosamente teso.
E come apparve fuori dalla tana e non appena, in un istante, i suoi occhi iniettati di sangue ebbero intravisto, in una vertigine di terrore, il movimento degli uomini e dei cani che gli si precipitavano addosso, un colpo tremendo assestato sul cranio, il colpo di una mazza di quercia, lo stese ai piedi del suo carnefice tra la marea urlante delle bestie che si accanivano su di lui.
Il tremito durò ancora a lungo nel suo corpo e quando, appeso per le zampe alla pertica maledetta portata da due cacciatori, venne portato in trionfo al villaggio degli uomini, col cervello già oscurato dai fumi della morte, i suoi occhi ancora limpidi poterono scorgere, di lontano, il sole che rosso annunciava l’approssimarsi della notte, e che rideva d’un riso sanguinario basso sull’orizzonte.

“il manifesto”, 17 agosto 2006

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