25.11.15

150 giorni a Girgenti. Le disgrazie del prefetto Falconcini (Andrea Camilleri)

Il testo che segue è un ampio stralcio della prefazione di Camilleri al libro di Enrico Falconcini Cinque mesi di prefettura in Sicilia (Sellerio 2002), ripubblicata con il titolo Il primo prefetto di Girgenti in Come la penso (Chiare lettere, 2013), una gustosa e interessante raccolta di scritti d'occasione dello scrittore siciliano, la cui lettura vivamente si consiglia. (S.L.L.)

Quando il nuovo prefetto di Girgenti, cavalier Enrico Falconcini, mise piede, alle 10 di mattina del 13 agosto 1862, sulla banchina del Molo di Girgenti (o Porto Empedocle) per pigliare possesso della prefettura che gli era stata assegnata, c’erano ad aspettarlo i comandanti militari, le autorità, i notabili e l’immancabile banda musicale. Il maestro sollevò la bacchetta per dare il via all’inno nazionale e in quel preciso momento, sotto gli occhi sbarracati del nuovo venuto, tutti si lanciarono, gridando in una fuitina generale, lasciando solo l’esterrefatto Falconcini. Il quale, non avendo ancora del tutto ricuperato l’equilibrio a causa della navigazione che non era stata facile, non si rese subito conto che c’era stata una scossa di «novello tremuoto» come scrissero le gazzette dell’epoca. Il tremuoto a Girgenti dal 1859 pareva essercisi affezionato: ogni tanto passava, faceva cadere qualche casa, ma non procurava né morti né feriti. Ora bisogna dire che Falconcini era uomo del Nord: perciò pigliò il tremuoto per quello che era, vale a dire una leggera scossa sismica.
Ma io mi domando e dico: benedetto uomo, come hai fatto a non capire quello che era subito apparso evidente agli occhi di tutti: che non si trattava di un semplice tremuoto, ma di un lampante avvertimento? Stare in questo paese per te non è cosa, diceva il tremuoto, l’unica cosa per te è risalire a bordo e scappartene il più lontano possibile. Falconcini, invece, non capì e restò.
Bisogna dire che nei cinque mesi che Falconcini fu prefetto di Girgenti capitò tutto quello che poteva capitare. Da tempo la situazione in Sicilia era assai tesa. Garibaldi insisteva col suo «O Roma o morte», il re protestava contro l’intenzione del Generalissimo, il partito garibaldino cominciava a formare campi militari, si armava, reclutava seguaci entusiasti e violenti un po’ dovunque. Poi c’erano i renitenti alla leva che si erano dati alla latitanza. Poi c’erano i briganti sempre più numerosi che mandavano ai ricchi tante di quelle terrorizzanti lettere di «scrocco» da intasare la distribuzione della posta. L’8 agosto, al molo di Girgenti erano sbarcati duemila uomini di truppa, il 10 nel capoluogo s’accampava un battaglione di bersaglieri. Il pomeriggio stesso dell’arrivo del nuovo prefetto giunge un generale con truppa e artiglieria di campagna. In serata, la città viene completamente circondata dalle truppe regolari. Ma numerosi soldati disertano per unirsi ai volontari garibaldini. Insomma, possiamo essere certi che in quella sua prima nottata girgentana Falconcini non pigliò sonno.
Le cose stavano a questo punto quando il 21 dello stesso mese Cuggia, prefetto di Palermo con autorità sugli altri prefetti dell’isola, proclamò lo stato d’assedio. Scoppiano rivolte, sparatorie, incendi di case. L’unica buona notizia Falconcini la riceve diciotto giorni appresso il suo insediamento: Garibaldi, ferito, è stato disfatto in Aspromonte. Ma la notizia non significa tranquillità, il partito garibaldino organizza una strepitosa manifestazione contro il governo, Racalmuto insorge, sbarcano altri cinquecento bersaglieri di rinforzo. Ma capita anche un fatto inaudito, unico nella storia d’Italia: ben quarantatré impiegati statali firmano le loro dimissioni come segno di solidarietà a Garibaldi. Di fronte a un fatto simile (paragonabile forse all’apparizione di un’Idra a sette teste nella centralissima via Atenea) e cioè con la burocrazia girgentana che si schierava a favore di un rivoluzionario, Falconcini come minimo avrebbe dovuto domandare asilo politico in Svizzera. S’arrabattava, povirazzo, spedendo a dritta e a mancina circolari, proclami, ordini che o cadono nell’indifferenza generale o ricevono risposte di formale adesione.
In più, è un uomo molto riservato, non ha amicizie locali, non si fa vedere nei due circoli importanti della città, a molti sta antipatico. [...] Sempre più frequenti compaiono scritte sui muri: «Abbasso Falconcini!». Il quale intanto dimostra ogni giorno che è un uomo che non «sa vivere». Si mette contro i preti per una questione di decime, allontana dalla prefettura e dagli uffici i faccendieri, desidera l’applicazione rigorosa di un’ordinanza del famigerato Eberhardt che proibisce la detenzione di armi, pena la fucilazione sul posto. E gli capita tra capo e collo, il 26 ottobre, lo stivale di Garibaldi. Stivale insanguinato portato a Girgenti dall’avvocato Ricci-Gramitto, luogotenente del generale ad Aspromonte, e venerato come una reliquia. Il partito garibaldino girgentano reclama l’autorizzazione di una grande manifestazione in onore del reduce Ricci-Gramitto e dello stivale. Dopo averci a lungo ragionato, il prefetto concede l’autorizzazione, «onde evitare ulteriore turbativa», ma si attira l’inimicizia della borghesia conservatrice e della nobiltà. Di questa autorizzazione però noi italiani dobbiamo essere grati a Falconcini. Fu infatti in occasione di quella manifestazione che Caterina Ricci-Gramitto, sorella di Rocco, conobbe un garibaldino compagno d’armi del fratello, tale Stefano Pirandello». I due si piacquero e si sposarono: dalla loro unione nacque Luigi Pirandello.
Ai primi di novembre, il prefetto decide di andare a dare un’occhiata al carcere, che era il castello di Agrigento, dal quale i 127 reclusi sarebbero stati poi trasferiti nel piccolo ex convento di San Vito. Rimane allibito per la sporcizia e il degrado. Soprattutto lo colpisce il fatto che nel cortile razzolino delle galline, la metà delle quali sono dei carcerati e l’altra metà appartengono al capo delle guardie di custodia. Falconcini lo fa destituire e chiama al suo posto un capoguardia settentrionale il quale, a sua volta, manda a spasso le altre guardie, sicché i custodi, come annota nel suo diario l’avvocato Picone, «sono tutti continentali», fatta eccezione di un calabrese. Ai primi di dicembre, il prefetto riceve una lettera anonima che lo mette in guardia circa una possibile evasione di alcuni carcerati. Falconcini ordina un’ispezione che viene effettuata il 22 dicembre. Il delegato centrale Francesco Gaudio, coadiuvato da una compagnia del 37° reggimento, da una decina di carabinieri e da «tutte» le guardie di Ps di Girgenti, mette sottosopra il carcere, fa battere spranghe di ferro contro pavimenti, soffitti, pareti allo scopo di sentire eventuali vuoti. Le pareti e il suolo delle celle e dei cameroni «si trovaron del tutto ignudi». Le povere cose dei detenuti e i detenuti stessi vengono perquisiti. Non si trova niente di sospetto. Nessun preparativo di fuga, garantisce nel suo rapporto al prefetto il delegato centrale. Nel corso della sera di Natale, i detenuti hanno il permesso di scambiarsi abbracci e auguri sotto gli occhi dei custodi «continentali».

La mattina del 25, giorno di Natale, uno strano silenzio regna nel carcere. Infatti non c’è più manco un detenuto: tutti i 127 sono evasi attraverso uno scavo effettuato proprio sotto a uno di quei cameroni pigliati a sprangate di ferro per sentire se suonava qualche tratto vuoto. Il custode di guardia di quella notte, guarda caso il calabrese, non ha visto né sentito niente. Falconcini, in sua difesa, allega ai rapporti un «dettaglio dei modi e mezzi usati» dai carcerati per evadere redatto a cura del Genio civile: un documento particolareggiato che dimostra come tra i carcerati c’era chi aveva ingegno e conoscenze tecniche di scavo non comuni. Falconcini azzarda l’ipotesi che si sia trattato di una raffinata vendetta del capoguardia e degli altri custodi licenziati per far posto ai «continentali»; crediamo che sia un’ipotesi plausibile. A nulla valgono le difese di Falconcini: da Torino, 1’11 gennaio 1863 un telegramma del ministro gli comunica che «in data d’oggi è stato dispensato dalla carica di prefetto di codesta provincia». Non sarà mai più prefetto di nessun’altra provincia, la sua carriera terminerà qui. Salutato con una fuga, il suo soggiorno girgentano terminerà con un’altra fuga. Questo libro, un’autodifesa corredata da un centinaio di documenti, ha un suo rilevante valore storico per meglio capire le condizioni della Sicilia nel periodo immediatamente successivo all’Unità. Credo però che abbia valore anche e soprattutto come patetica e involontariamente umoristica testimonianza della vana lotta di uno sventurato contro un destino avverso o, più prosaicamente se volete, contro una jella di rara implacabilità.

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