10.11.15

Alla corte dei golosi, Dante sazia la fame di versi (Edoardo Sanguineti)

Dalla Lectura Dantis che sulle sue pagine, giorno dopo giorno, il “Corriere della Sera” andò componendo nel 2004, coprendo trenta canti scelti della Commedia, riprendo qui quella del canto di Bonagiunta Orbicciani da Lucca e di Forese Donati, il XXIV del Pugatorio, opera di Edoardo Sanguineti, il nostro compagno poeta e comunista, che ci capita spesso di rimpiangere. (S.L.L.)
Dante e Bonagiunta in una miniatura (British Museum)
Battibecco sulla poesia nel sesto girone
L’incontro con Bonagiunta è uno dei luoghi più tormentati e tormentosi della Commedia - che pure non sono pochi. Ma la presenza di una dichiarazione di poetica, da parte di Dante, non poteva non rendere cruciale l’interpretazione di questo episodio. Si aggiunga che ne dipende, per molti riguardi, ogni nostra possibile concezione dello stilnovismo, e dunque, in certo modo, dell’intiera vicenda della nostra poesia duecentesca.
Additato a Dante da Forese, in prima fila nella schiera dei golosi che popolano la sesta cornice, Bonagiunta è prescelto da Dante, sopra gli altri, anche perché egli lo sente mormorare «non so che Gentucca». La quale, a credere al Buti, è «una gentil donna chiamata madonna Gentucca, ch’era di rossin pelo», da Dante altamente prediletta «per la virtù grande et onestà ch’era in lei, non per altro amore», tanto che, per merito suo, gli riuscirà gradita la pur sgradita Lucca, proverbiale tana di barattieri, per testimonianza di Dante stesso. Non occorre essere particolarmente sofisticati per rilevare che, in bocca a Bonagiunta, la giovinetta lucchese (non maritata, «non porta ancor benda») è designata come «femmina». È cosa che disdice alla poetica dantesca delle «nove rime» e del «dolce stil novo», se proprio nella Vita nuova, volgendosi alle donne che hanno «intelletto d’amore», in quella celebre canzone che Bonagiunta subito citerà come inaugurale alla nuova maniera di Dante si sottolinea come il poeta si rivolgesse, parlando «a donne in seconda persona», non già ad ogni donna, «ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine».
Lo scarto semantico che Dante impone tra due parole è dunque l'emblema lessicale che prefigura quel conflitto di poeti che subito oltre si dichiara, quando Bonagiunta chiede se davvero si trova dinanzi, vivo, «colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / "Donne ch'avete intelletto d'amore"». E nel De vulgari eloquentia, non a caso, la canzone è ricordata come quella che «solis endecasillabis gaudet esse contexta», sul modello della cavalcantiana Donna me prega, alla quale per altro è connessa dalla natura programmatica di trattazione in versi intorno alla natura d'amore e all'ideologia del poetare. Per inciso, di soli endecasillabi gode di essere intessuta anche la dottrinale Voi che 'ntendendo, che Dante citerà, anche con intento autocritico, nel Paradiso (un po' come qui, in Purgatorio, aveva già fatto intonare da Casella Amor che ne la mente).
In ogni caso, il luogo decisivo è, ovviamente, la risposta di Dante, la famosa autodesignazione per cui egli proclama: «I' mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando». Che è una sorta di ristrutturazione di quanto era già nitidamente espresso nella prosa del «libello» giovanile. Spinto dalla «volontade di dire», e tuttavia esitante, non avendo «ardire di cominciare», diviso tra «disiderio di dire» e «paura di cominciare», onde inaugurare la poetica della «loda» della «gentilissima» Beatrice, Dante attende finché la sua lingua, un giorno, «parlò quasi come per sé stessa mossa». Passano ancora «alquanti die», e finalmente egli comincia «una canzone con questo cominciamento», che è appunto Donne ch'avete. La risposta di Dante a Bonagiunta non soltanto riecheggia diversi altri luoghi della Vita nuova, che proclamano strenua fedeltà al volere e al dettare d' Amore, ma riprendono il luogo topico, di ampia diffusione nella cultura medievale, sacra e profana, di Amore (e di Dio stesso) come dictator, onde le penne dei poeti e dei santi «di retro al dittator sen vanno strette».
È una risposta quale poteva e doveva dare, nel 1300, l'autore delle «nove rime», anche se strategicamente dilatabile ormai, al buon intenditore che legga la Commedia, sino al «sacrato poema», con un supplemento di senso affatto inedito. Ma è pur vero che le «nove rime» erano elaborate, come Bonagiunta lamentava in un noto sonetto polemico indirizzato al Guinizzelli, con un mutamento radicale nella «manera / de li plagenti ditti de l'amore», avendo in mente, non c'è dubbio, la guinizzelliana Al cor gentil. Ma il Dante 1300, se è il Dante che ha già sostituito (proprio con la sua poetica della «loda»), alla donna angelicata, una Beatrice che è un vero angelo, e ha dunque rifondato una sua specifica dottrina d' amore, è quello che ancora non ha incontrato, nel suo itinerario, quel suo Guinizzelli che, per quella medesima canzone, sarà presto ritrovato, una cornice più su, tra i lussuriosi peccanti di amore «ermafrodito». C'era già stata la rivelazione folgorante di Francesca da Rimini, sulla congiunzione di amore e gentilezza, è vero. Ma qui è sottolineato, teste Bonagiunta, che il vero «dolce stil novo» è quello che Dante ha fondato, e che liquida ormai come irricevibili, comunque, le poetiche del Notaro, di Guittone, di Bonagiunta appunto. Se si prescinde da una siffatta svolta ideologica, che al solito è anche una svolta di linguaggio, non si coglie più il «nodo» discriminante, e non si misura la distanza che corre «da l' uno a l' altro stilo».
Detto questo, è pure bene rammentare che Dante, grande narratore, e grande autore drammatico, nel suo «poema sacro», con straordinaria avvedutezza costruttiva, interpone l'incontro con Bonagiunta, come una sorta di intermezzo, nell'arco compatto che stringe questo capitolo del Purgatorio al precedente, all'interno dell'incontro con Forese. Anche quello è, in altra forma, un dibattito, per molti versi, sull'ideologia poetica e sopra l'etica della scrittura.
Non si può intendere il colloquio, e la vergogna che coglie i due fiorentini nel «memorar» la loro giovinezza («qual fosti meco, e qual io teco fui»), senza fare riferimento ai sonetti della loro famosa tenzone: un testo che, a volerlo udire, per dirla dantescamente, è «bassa voglia». Da questi non soltanto si apprende quanta «roba» Forese ha messo «giù per la gola» (i «petti de le starne» e la «lonza del castrone»), ma si misura la forza della radicale ritrattazione espiativa delle violente insinuazioni che coinvolgevano la «malfatata / moglie di Bicci vocato Forese». Ormai Nella è celebrata come diletta e devota «vedovella». Ma, a stringere tematicamente l'esplorazione della cornice dei golosi, facendo forza su Forese, stanno, in primo luogo, i vincoli di sangue. E c'è Piccarda, e si prepara il sublime incontro che avverrà nel cielo della Luna, e, in toni radicalmente opposti, Corso, di cui il goloso infine profetizza, con colori visionari violenti, lo sprofondamento infernale, nella «valle ove mai non si scolpa».
Così, se la prima parte del colloquio, nel canto XXIII, poteva approdare infine, evocando la sorella, alla deprecazione di quella nuova Barbagia impudica che è la corrotta Firenze, e che presto sarà punita per le sue dissolutezze, questo XXIV può ribadire come una «trista ruina» attenda la città che, ogni giorno di più, si spoglia di ogni pregio. E il fratello Corso appare come colui che, di tutto questo, «più n' ha colpa».
Il «poema sacro», del resto, è, in primo luogo, opera di vaticinio, è conquista e svolgimento di una missione profetica, è il grande annuncio della vittoria del veltro sopra la lupa.

Corriere della Sera 20 luglio 2004  

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