6.11.15

Il mito Pasolini (Walter Siti)

Non condivido tutto di questo provocatorio saggio scritto dieci anni fa. 
Mi pare che il giudizio sull'opera di Pasolini che si legge in controluce in questo testo dedicato al “mito Pasolini” sia alquanto ingeneroso; in particolare mi pare da discutere l'idea di un rapporto “selvaggio” con la cultura. 
Trovo inoltre piuttosto improbabile una fungibilità di codesto mito da parte della “destra” così com'è diventata e non mi convince la tesi – rilanciata da Belpoliti negli anni scorsi – di una morte che affonda le sue radici esclusivamente nella vita privata.
E tuttavia la lettura del mito Pasolini mi pare acuta e la individuazione delle sue componenti corretta, utile in ogni caso a spiegare l'insopportabile melassa e la riduzione a “santino” che si sono viste all'opera in tante celebrazioni mediatiche del quarantennale. (S.L.L.)

Vorrei partire dalla definizione di «mito» che viene data da Roland Barthes in Mythologies: il «significato mitico» si ha quando il significante e il significato di un’icona culturale diventano a loro volta il significante di qualcosa di più vasto, che è per l’appunto un «mito». L’esempio che lui dà è l’immagine di un soldato nero che saluta la bandiera francese: il significante (il colore della pelle e la divisa del legionario, il bianco il rosso e il blu eccetera) e il significato esplicito (appunto un ragazzo delle colonie che si è arruolato nell’esercito francese) diventano a loro volta il significante di un significato più vasto e impreciso (la lealtà delle colonie, l’universalità dei valori di libertà uguaglianza fraternità, la sicurezza un po’ paternalistica del vecchio colonialismo) che costituisce il mito della «superiorità francese».
Se proviamo ad applicare questa nozione all’immagine di Pasolini, ecco che abbiamo, come «significante», la sua opera intera, sia letteraria che cinematografica e pittorica, ma anche le fotografie che lo ritraggono, o gli spezzoni di video in cui compare; come «significato», quello di uno degli intellettuali più intelligenti e coraggiosi della seconda metà del Novecento in Italia, le tesi che ha sostenuto, la bellezza che è riuscito a creare, ma anche un uomo nevrotico e contraddittorio, e un artista che ha spesso sprecato il suo talento in testi ridondanti e non esenti dal kitsch. Tutte queste cose, significante e significato, diventano a loro volta il significante di quel «mito Pasolini» che si è cristallizzato in Italia durante trent’anni, e di cui cercherò di analizzare le componenti. [...]

La prima componente del «mito Pasolini» è certamente quella della poesia assassinata dalla società. Le parole che Moravia gridò al funerale («La poesia è una cosa rara, e hanno assassinato un poeta») hanno smesso di essere l’omaggio commosso da parte di un amico che sapeva di appartenere a una razza completamente diversa e che presentava le armi a questa diversità, e sono diventate la pietra angolare di un edificio mitico. Pasolini è diventato, per la massa, il «Poeta» per antonomasia; e i Poeti, si sa, devono essere assassinati. La poesia (nell’immaginario massificato) non esiste più nel mondo contemporaneo: sono i «poeti estinti» che Robin Williams, professore improbabile, fa amare a una classe del 1959, o sono le metafore che in uno sperduto paesetto di mare Neruda insegna a un postino. Pasolini, Poeta assassinato, ci vendica della spoetizzazione del mondo. Pasolini ha disseminato la poesia anche fuori dai suoi versi, aveva il «fisico» del Poeta. Non importa quello che ha scritto. Pasolini ci regala la soddisfazione di amare la poesia senza la noia di leggerla.

La seconda componente del mito è la certezza che esistono i profeti, che intuiscono e vedono per noi. «Che direbbe di questo Pasolini?». «Ah, se ci fosse ancora Pasolini!», si sente invocare spesso, anche sugli autobus o in coda per la posta. Di nessun altro scrittore, in Italia, si sente dire (forse qualche volta di Sciascia, ma solo nelle feste al Salone del libro). In realtà Pasolini non ha previsto praticamente niente del futuro italiano e mondiale: il «Processo» al Palazzo non prefigura Mani Pulite, è piuttosto una riscrittura di Todo modo con altri mezzi; dell’omologazione e della Borghesia Totale avevano già parlato i francofortesi; sulla rovina ecologica e sullo strazio dei monumenti avevamo letto Cederna. Là dove ha azzardato delle profezie (le meraviglie dell’Unione Sovietica negli anni Novanta, la sparizione delle differenze locali, la fine della religione, il benessere occidentale uniformemente crescente) le ha generalmente sbagliate, com’è giusto e umano. Lui, certo, ha visto con straordinaria precocità cose che stavano già accadendo, e le ha viste con quella chiarezza e quella prontezza perché per lui non erano solo dati sociologici, erano questione di vita o di morte. Ma il mito di massa preferisce pensare che in lui fosse all’opera, invece che un’ossessione dolorosa, una misteriosa capacità di veggente (forse da relazionare, ancora una volta, con la Poesia Mitica). Se ci sono i Profeti, noi possiamo smettere di sforzarci.

La terza componente del mito è quella del coraggio delle proprie idee, fino alla morte. Pasolini ha affrontato uno scandalo dopo l’altro, un processo dopo l’altro; si è fortificato con gli scandali (visto che all’inizio non ha potuto evitarli), e ha accettato una continua accelerazione della propria vita. Coraggiosamente, certo, ma anche inevitabilmente. Ha detto quello che pensava su riviste e giornali, senza temere inimicizie; e la situazione dei media era tale che una singola voce poteva ancora farsi sentire. Pasolini ha dato spesso l’impressione di combattere a mani nude contro il Potere. Ma non sarebbe morto per quello: l’apologo di Porno Teo Kolossal, del poeta che col suo pessimismo disperato spinge tutti gli altri a morire, ed è il solo che non muore, ha una grana oscuramente e atrocemente autobiografica. Le ragioni del suo assassinio sono probabilmente da ricercare nei rischi della sua vita privata. Invece il mito di massa preferisce la tesi del complotto politico, è bello avere anche da noi un martire come quelli che possono vantare la Birmania o il Sudamerica. Pasolini è l’eroe morto per le sue idee, non quelli che davvero sono stati fatti fuori dalla mafia. Potenza del mito.

La quarta componente è la prova che basta la passione per capire. Pasolini pensava «con amore»; pensava in grande, senza perdersi nell’erudizione e nelle minuzie. Ha divulgato sui media concetti semplici. «Usava» la cultura, rubacchiava qua e là. Per la sua ossessione erotica, non aveva «sublimato» la cultura facendola diventare carne della sua carne, sangue del suo sangue (leggete le lettere di Primo Levi, o di Leone Ginzburg, per capire cosa intendo); era rimasto un «selvaggio», e se ne vantava; per lui la cultura era una pellicola che si poteva staccare dalla vita a piacimento. Esattamente come sta facendo il desiderio consumistico; in questo senso, Pasolini non era un avversario del consumismo, ne era un modello. Questo segmento del «mito Pasolini» dà a chi lo coltiva la soddisfazione di avere delle opinioni forti senza bisogno di controllarle sui libri. (E senza pagare questo vantaggio col peso di un’ossessione erotica, come invece violentemente lo pagava Pasolini).

La quinta componente, anche se può apparire paradossale in un paese sostanzialmente omofobo come l’Italia, è proprio l’omosessualità esemplare di Pasolini. Pasolini non ha mai nascosto la sua omosessualità, almeno a partire da una certa data. Ma l’ha sempre declinata molto «virilmente»: il suo disprezzo per le «checche» traspare in tutti i suoi romanzi, da Ragazzi di vita a Petrolio. Non ha mai preso posizioni da omosessuale militante. È stato, insomma, un «omosessuale a cui si può stringere la mano». E soprattutto, essenziale per il nostro mito di massa, l’ha pagata. È un eroe, d’accordo, ma un eroe che ha una magagna, e a cui possiamo sentirci superiori. Da perfetto capro espiatorio, ha peccato ed è stato punito per tutti. Questo segmento del mito dà la soddisfazione di sentirsi tolleranti, e superiori in qualcosa a un mito.

La sesta e ultima componente, tra quelle che posso far emergere in una riflessione superficiale come la mia, è la testimonianza che si stava meglio prima. Anche questa apparentemente paradossale, in uno sperimentatore inesausto e in un rivoluzionario in pectore come Pasolini. Ma il «colore» in cui il mito Pasolini si trova immerso è certamente il colore della nostalgia; nostalgia della sua nostalgia, nostalgia per gli anni Sessanta, nostalgia per i suoi ragazzi di vita. Tutti a dire che i suoi sottoproletari erano adorabili mentre quelli di adesso fanno schifo; ma chi lo dice avrebbe trovato che facevano schifo anche quelli di una volta, se solo ci fosse capitato in mezzo. Forse come ogni mito, anche quello di Pasolini è un modo per evadere dal Tempo.

Il mito Pasolini è, politicamente, un mito trasversale. Mentre il mito Pavese, fin che è durato, era tipicamente un mito di sinistra, il mito Pasolini è bipartisan. La televisione può fare trasmissioni su Pasolini senza doverle ascrivere a una parte politica, non ha bisogno di controbilanciarle per par condicio. I fruitori di massa del mito sono rassicurati dal sapere che tra gli ammiratori di Pasolini ci sono intellettuali di destra e di sinistra, da Goffredo Fofi a Marcello Veneziani. La sua situazione bipartisan lo rende particolarmente caro agli assessori alla cultura, perché è un fiore all’occhiello e un sicuro richiamo: le piazze si riempiono e se qualcuno si oppone in Consiglio ci fa lui una brutta figura.
Lo amano i parlamentari e i rivoluzionari eversivi. Lo amano a destra perché ce l’aveva coi capelloni e con gli studenti che occupavano le università, e perché negli ultimi anni esaltava la disciplina. Perché era atletico e giocava a calcio, lo confondono con Mishima. Lo amano a sinistra perché era un compagno di strada, una «coscienza critica»; perché era pieno di contraddizioni, perché era gay; perché era un po’ antiquato e predicava Gramsci. Lo ama Maurizio Costanzo, perché era un supergiornalista che aveva scoperto le borgate, e perché vendeva al «Corriere» una cultura che di solito i giornali non possono permettersi. Lo amano i cineasti, perché non apparteneva alla confraternita. Lo amano i registi teatrali, perché «fa colto» ma mettendolo in scena si possono mostrare i corpi nudi. Nudo e poesia.
Il suo mito può contare, insomma, su quelli che in Italia promuovono la cultura.

Che fare? Difendere Pasolini dal suo mito? Rimproverare a Pasolini di essersi «prefabbricato» per il mito (certo, fin dalle infantili imitazioni cristologiche, c’era in lui una vocazione all’esibizione «corporale» molto più forte di un semplice esibizionismo nevrotico, qualcosa che stava più vicino al teatro e alla santità, in un triangolo approssimativo tra Artaud, Karol Wojtyla e Marilyn)? Auspicare che in tivvù, invece di cervellotici documentari in cui una telecamera posta sul lunotto posteriore di un’auto mostra strade in fuga, mentre a squarci Pasolini pronuncia frasi pensose tratte dalle sue interviste, si vada a leggere e a discutere seriamente l’opera sua? Temo che il mito e la critica tengano strade diverse, o addirittura appartengano a mondi separati. C’è un Pasolini che appartiene ai letterati italiani, e un Pasolini che appartiene a un microcapitolo di storia delle religioni. E non è affatto detto che il Pasolini del mito, tra i due, sia il meno interessante.


da «Micromega», 6, 2005, ora nel sito Le parole e le cose 2 novembre 2015

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