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“Comunisti a Palermo” recupero questo interessante racconto
politico-gastronomico, opera di un giornalista di valore che conobbi
quand'era un giovane comunista, entusiasta. (S.L.L.)
Furono panellari e
comunisti. Di razza. Nel senso che panelle e rivoluzione segnarono
due generazioni. Il che ci offre, quando siamo appena all'inizio, già
una conclusione: le ideologie crollano e comunque passano, le panelle
no.
Ignazio Lisciandrello,
classe 1921, fece in tempo a vedere Achille Occhetto che alla
Bolognina mandava in pensione il Pci, prima di mandare in pensione la
sua panelleria di via Oreto. Nel Pds non entrò mai, ancorato com'era
al manicheismo dell'ideologia: da una parte borghesi e capitalisti,
dall'altra il proletariato e i morti di fame. Da "comunista
senza tessera" se ne andò in giro per anni col suo amico Lo
Giudice, in giro per musei e per archivi, cercando inutilmente di
placare la sete di conoscenza che negli anni aveva fatto di lui,
quinta elementare, autodidatta, un osso duro per i tanti
intellettuali che da via Caltanissetta dove c'era la Federazione,
"calavano" in via Oreto a spiegarci "com'era il
fatto". Se ne andò nel 2001, come a prendere atto che il Terzo
Millennio non era cosa sua e che era meglio sentirsi qualcuno alla
fine del Secondo. Qualcuno che si era alzato ogni mattina cercando di
trovare il sole oltre i tetti dei vicoli stretti del centro storico
di Palermo, lo stesso sole che indicava, come in un quadro del
realismo socialista, quando parlava coi ferrovieri, con gli "'gnuri",
con gli inservienti e gli infermieri del Civico e del Policlinico. E
gli diceva: “quello non è solo una stella, è l'avvenire".
Ignazio Lisciandrello era
basso e tondo. Aveva i piedi piccoli e quando camminava aveva
un'andatura un po' rotolante. Ma questo non gli toglieva certo
carisma perché laddove il fisico aveva, se così si può dire,
tradito lo stereotipo del Rivoluzionario, a compensare interveniva lo
sguardo che sapeva essere radioso e tagliente, ispirato e
furbacchione. Specialmente quando si accompagnava al sorriso quale
che fosse: cortesia, affetto, ironia, divertimento. I suoi capelli
che io ricordo sempre brizzolati, erano pettinati all'indietro,
rigorosamente alla "mascagna": Niente barba né baffi:
faccia liscia e espressione sempre solare anche nella rampogna.
Era nato nella "Villa
dei Parrini", un diverticolo verde cui si accedeva
sorprendentemente da un vicolo di via Oreto tra il Fondo Mendola e la
via Gaspare Palermo. Un piccolo portico dava su un'area verde dove
c'era un convento (da qui Villa dei Parrini, cioè villa dei preti).
Lì c'era la "persiana" dei Lisciandrello.
La "persiana" è
il classico "scuro" siciliano che ricopre balconi e
finestre. Stile arabo che consente il massimo della flessibilità:
aprendo o chiudendo le "scalette" puoi fare entrare solo la
luce che ti serve o non farne entrare affatto. Ma, cosa
importantissima, ti consente, tra le altre cose, di guardare senza
essere visto. Questo riguarda "le" persiane. Ma quando dal
plurale si passa al singolare, ecco che la "persiana"
diventa una tipologia si direbbe oggi "abitativa", un luogo
dove vivere al quale si accede, appunto, da una sorta di
porta-finestra. La quale di solito dà accesso a una stanza da
pranzo-tinello, poi c'è un'altra stanza dove di solito dormono i
figli, poi un'altra ancora che è il talamo dei padroni di casa. In
fondo, per ultimi, gabinetto e cucina i quali soventemente si
affacciano su un terrazzino interno che magari d'estate consente
qualche "arrostita" all'aperto di salsiccia o di sgombri e
sarde.
I Lisciandrello erano in
cinque: padre, madre, tre figli: un maschio, Ignazio, e due femmine.
Il padre di Ignazio faceva il panellaro e per capire come fosse la
sua vita è bene spiegare di cosa stiamo parlando.
Le panelle sono
frittelle di farina di ceci impastata con acqua e sale. La farina si
mette in un grande ancestrale pentolone pieno d'acqua e il tutto si
mette su un fuoco bello allegro. Ma bisogna rimanere lì davanti a
mescolare in continuazione come si fa con la polenta (lo avreste mai
detto di questo solido legame coi "polentoni"?). A un certo
momento il pentolone sembra contenere una sorta di lava giallina che
fa "blop blop". A quel punto manca poco e, dopo quel poco,
l'impasto si rovescia sopra una grande "balata" di marmo. E
si lascia raffreddare ma non troppo. Accade infatti che l'ìmpasto,
col diminuire della temperatura, si rapprende, tende a
solidificarsi. Allora, per fare le panelle, bisogna intervenire in
una fase di mezzo di questo processo. Così: con una spatola si
raccoglie un po' di impasto e lo si spalma su una tavoletta di legno
delle dimensioni medie di un palmo. Queste tavolette sono fatte di
legno duro: "pich pine" (Pinopece), Palissandro, Noce o
Ciliegio. Vi si spalma sopra un velo di impasto spesso due/tre
millimetri e si mette da parte. Quando la panella da cremosa diventa
solida, è pronta per essere staccata (basta rovesciare) dalla
tavoletta per una successiva cottura tramite frittura.
Le crocchè,
invece, si preparano lessando le patate con tutta la buccia (devono
essere della razza di quelle che quando si cuociono non assorbono
molta acqua e anche per questo si lessanosenza pelarle prima). Per
questa operazione si impiega un pentolone dotato di un grande
coperchio. Si usa pochissima acqua e una fiamma non troppo viva per
fare in modo che le patate risultino lessate più dal vapore che
dall'acqua. Una volta cotte si lasciano raffreddare, si pelano e si
passano nell'apposito tritapatate, quello che in casa serve per fare
la purea. Quando le patate sono passate, si aggiunge prezzemolo e
poche foglioline di mentuccia e si preparano le crocchè rotolando un
po' di impasto con una mano sul palmo dell'altra. Si chiamano anche
"cazzilli" in omaggio al fatto che, a guardarle, certo sono
un po' falliche.
Ora tutto questo lavoro
preparatorio, quello che precede la frittura, di solito si fa in un
luogo diverso da dove c'è la panelleria. Almeno a quel tempo.
Nessuno era in grado di possedere o prendere in affitto un locale
tanto grande da metterci vendita ma anche laboratorio di
preparazione. Questi lavori di solito si facevano a casa sfruttando
così pure la manodopera gratuita di mogli e figlie che certo non
potevano andare a lavorare in friggitoria, luogo per definizione rude
e spartano. Assolutamente maschile.
Così Lisciandrello
senior preparava il suo materiale nel pomeriggio (le panelle
pomeridiane o serali sono una conquista recente della ristorazione ex
radical-chic) e disponeva panelle e crocchè da friggere nelle ceste
di vimini ovali col manico. Preparava la quantità che gli garantiva
di soddisfare la "domanda standard" dei suoi clienti e per
limitare al minimo la sopravvivenza di invenduto. Quando ci fai
l'occhio finisce sempre che agli ultimi clienti allarghi le braccia
perché non hai più nulla. Se vuoi dare roba fresca.
Il fatto è che con le
panelle non si può mentire per via del disegno. Esatto: le panelle
sono "disegnate". Le tavolette sulle quali vengono
spalmate, infatti, hanno l'incisione di alcune scanalature che
assolvono sostanzialmente due compiti: trattenere l'impasto come
fossero "fondamenta" e garantire la freschezza del
prodotto. Perché una panella rifritta, perde il disegno e si vede
subito.
Tra una panella e una
crocchè Lisciandrello senior trovava il tempo per la politica. Era
un comunista della prima ora nel senso che si interessava di politica
ancora prima che il partito di Gramsci e Togliatti nascesse a Livorno
da una costola del Partito Socialista di Turati e Treves. Era il
1921, lo stesso anno in cui era nato Ignazio. A dirlo sembra facile
ma a Palermo, se nel resto d'Italia quelle erano idee che già
stentavano a farsi strada, era ancora più difficile: città di
baroni e sottoproletari, niente classe operaia e nemmeno piccola
borghesia o classe media, pochi intellettuali, mafia, sbirri
occhiuti. Per Lisciandrello senior la propaganda era rischiosa, ma
non si tirava indietro forte anche di compagni d'avventura che sempre
pronti a rischiare per la causa. Ma un vero rivoluzionario, per
definizione, non può essere una leggenda clandestina: deve avere
volto, parole e azione. Ma questa visibilità, ahimè, comprende pure
i nemici, gli sbirri in primo luogo. Sbirri, intendiamoci, ben
diversi da quelli che oggi onoriamo e anche piangiamo perché sono
caduti lottando dalla parte di chi vuole scrollarsi di dosso la mafia
e le sue metastasi. Lo sbirro-tipo di allora era più il Matteo Lo
Vecchio dei Beati Paoli che il Montalbano di Camilleri.
Lisciandrello senior, che
a metà degli anni Trenta già si portava dietro il giovane Ignazio,
era ben conosciuto dalla squadra politica della questura. D'altra
parte quello era un quartiere piuttosto turbolento da quel punto di
vista, una vera spina nel fianco per il potere.
La via Oreto di Palermo è
una lunga strada che da piazza Sant'Antonino porta verso le colline
della Conca d'Oro tra Ciaculli e Croceverde Giardini, le borgate del
mandarino tardivo e della mafia dei Greco. E' la naturale
prosecuzione della via Maqueda, la stessa che ai quattro Canti
incrocia il Cassaro creando gli storici Quattro Mandamenti. La via
Oreto, dunque è l'asse principale di un quartiere che già alla fine
dell'Ottocento era immediata periferia rispetto al centro, zona
limitrofa alla Stazione centrale, arteria di grande movimento,
collegamento tra la città e il suo opulento territorio Orientale,
agricolo e mercantile.
Chi abitava nel
quartiere? In maggioranza non erano poveracci e nemmeno ignoranti.
C'erano, per esempio, tantissimi ferrovieri e quella era una
categoria tradizionalmente attratta dalle idee di rinnovamento, un
ambiente dove Socialismo e Anarchia avevano messo solide radici,
gente che si muoveva, con la mente aperta, l'aristocrazia della
classe operaia come i tipografi che dovendo saper scrivere, sapevano
anche leggere con tutte le conseguenze del caso. Poi c'erano quelli
che lavoravano all'Ospedale Civico e al Policlinico universitario:
infermieri, inservienti, impiegati, medici, professoroni, alti
burocrati, ambiente accademico. I più "in alto" di questo
settore certo non abitavano nel quartiere ma ci vivevano per molte
ore della loro giornata. Ma gli altri avevano casa lì attorno, tra
la via Oreto e il rione che poi si chiamò Montegrappa. Nel quartiere
c'erano numerose scuole elementari ma anche alcune scuole medie come
il Perez nell'omonima strada. La stessa dove viveva un personaggio
che per i palermitani è leggendario: Peppe Schiera, lo scarparo
poeta e antifascista che il cuore, l'amore e la testa di Salvo Licata
hanno salvato dall'oblio e restituito alla città. Peppe Schiera
faceva il calzolaio ma si divertiva a scrivere versi con l'unico
obiettivo di sbeffeggiare il Fascismo in quanto Stato, Regime. Era
uno capace di ricordare la vittoria del Piave con le parole "Ma
viri quantu foru fissa i fanti: avevano ri irisinni e ghieru avanti"
cantata sul motivetto di "24 maggio".
Naturalmente ogni volta
che a Palermo si presentava qualcuno "col giummo",
cioè un importante gerarca fascista, la squadra politica della
questura faceva il giro e portava in carcere per qualche giorno i
"noti sovversivi" caricando sulle carrozze-cellulare pure i
tipi come Beppe Schiera che se ne andavano gridando "Na
curazzata ra nostra Armata, si scuntrò cu una pignata. E nisciu
tutta ammaccata: a curazzata".
I Lisciandrello erano
conosciuti come "sovversivi" ma, da buoni palermitani,
cercavano di tenere sempre in equilibrio la coscienza politica e
civile con la necessità di campare la famiglia. E l'arguzia
alleggeriva il peso di dovere "moderarsi" per non finire in
galera. Vediamo come.
Dovete sapere che,
periodicamente, il partito fascista di Palermo, nel quadro di
un'alacre attività sul territorio, organizzava una serie di
controlli che puntavano in qualche modo a verificare che la
popolazione vivesse pervasa da quella mistica fascista che era fatta
di modi di dire (il "voi" che sostituiva il "lei"),
di modi di fare (niente strette di mano, meno che mai abbracci e
baci: solo virili saluti romani), di modi di vestire (camicia nera e
orbace nelle occasioni comandate). Tra gli obblighi per i
commercianti, c'era quello di tenere nel proprio esercizio un
Crocifisso, la foto del Re Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re
d'Italia e Imperatore dell'Africa Orientale (che i palermitani
chiamavano "sciaboletta visto che il "re soldato" era
così basso che avevano dovuto cambiare le dimensioni della sciabola
d'ordinanza, troppo lunga per lui). Ma soprattutto doveva esserci una
bella fotografia del Cavaliere. No, non quello, che allora era solo
un bambino. Qui si parla del Cavaliere Benito Mussolini, Duce del
Fascismo. La foto ufficiale preferita, specialmente negli anni della
guerra era quelle del maschio profilo del Duce con l'elmetto
militare, la possente e volitiva mascella che cercava di uscire dalla
cornice per liberarsi dall'espressione truce della bocca.
Le foto venivano
distribuite dalla corporazione dei commercianti e ogni esercente
aveva l'obbligo di esibirle. E, ogni tanto, una squadra del partito
passava a controllare.
La friggitoria dei
Lisciandrello era un piccolo antro buio sul quale si affacciava il
piano inclinato col fondo di alluminio sforacchiato dove si
scodellavano panelle e crocchè perché perdessero l'olio in eccesso.
Di lato c'era una piramide fatta di pagnottine col cimino che il
forno di fronte consegnava venti alla volta. D'altra parte bastava
chiamarli a voce per avvertirli che la scorta stava finendo e che
mandassero le altre pagnotte. In fondo c'era una cucina in muratura
con due grandi buchi per le padellone. Sotto si andava a legna, prima
che alla fine degli anni Cinquanta, si facesse finalmente ricorso ai
fornelloni e alle bombole di gas.
Alle pareti uno scaffale
con qualche "burnia", vasi di vetro con la bocca larga,
chiuse da un tappo di sughero. Si usavano per tenerci il sale e le
spezie. C'era pure lo spazio per la licenza di esercizio incorniciata
la cui mancata esibizione comportava una multa. E ci sarebbe stato
pure lo spazio per le due foto del re e del duce. Ma i Lisciandrello
avevano preso le foto, le avevano arrotolate e le avevano chiude
dentro una delle "burnie". Così, quando si presentavano
"quelli coi giummi" a chiedere conto e ragione del perché
le due foto non facessero bella mostra di sè sulle pareti, loro
candidamente rispondevano di averle chiuse nelle burnie proprio per
proteggerle. Proteggerle? E da cosa?. "Vede caro camerata, il
fatto è che questa panelleria è. E nella panelleria certo qualche
mosca gira. E poi succede che col tempo le mosche vanno a fare i
bisogni proprio sulla fotografia del Duce. E un Duce cacato non si
fa, è giusto?". E mi pare di vedere la faccia di Lisciandrello
senior che si allarga nel migliore sorriso da figlio di puttana che
si possa immaginare.
La friggitoria di via
Oreto, negli anni Cinquanta, passò nelle mani di Ignazio che aveva
lasciato la scuola dopo l'obbligatoria licenza elementare e da allora
aveva sempre aiutato il padre nella gestione dell'esercizio. Ignazio
aveva infiniti interessi e al lavoro dedicava il tempo
indispensabile. Non che "arrunzasse". Tutt'altro. Apriva la
friggitoria alle sette del mattino e alle undici aveva fatto fuori
tutto. Poi cominciava a pulire. Alla fine della mattinata il piano
inclinato di alluminio avrebbe potuto sostenere lenzuola di lino
bianco senza che sul tessuto restasse traccia di unto. Quando tirava
giù la saracinesca la friggitoria era più pulita di una farmacia.
Per il resto seguiva i ritmi che aveva imparato dal padre. Ma il
tempo libero lo dedicava tutto allo studio da autodidatta
(specialmente la storia contemporanea e quella di Palermo), alla
lettura quotidiana de "L'Unità" e settimanale di
"Rinascita" e alla frequentazione degli amici. Anzi dei
compagni. Erano passeggiate oppure, la domenica, il "giro"
per la diffusione de "L'Unità" porta a porta. Fu così che
la sezione Oreto del Pci nacque ancor prima di avere un locale.
Tecnicamente si chiamava "cellula" (un nome che profuma
ancora di cospirazione clandestina) e consisteva nel fatto che i
compagni si riunivano ogni pomeriggio in casa di uno di loro a turno
e discutevano della situazione politica a Roma, a Palermo ma,
soprattutto, nel quartiere.
Fu proprio Lisciandrello
a trovare i locali perché la cellula diventasse sezione a tutti gli
effetti. Una stanza e un bagno esattamente sopra la sua friggitoria.
In sezione si entrava da una porticina tra il locale e il bar Di
Gesù, dopo avere salito una ripida scaletta. E il compagno
Lisciandrello ne diventò il tesoriere e responsabile del
tesseramento. Ma era anche quello che "dettava i ritmi"
della sezione perché era lui il primo ad arrivare (e ad aprire) e
l'ultimo ad andarsene (e a chiudere). I compagni andavano,
discutevano oppure partecipavano ad assemblee su un fatto specifico o
ai congressi. In sezione arrivava il materiale di propaganda inviato
dalla Federazione: opuscoli, libretti, i famosi manifesti azzurri col
simbolo al centro e la scritta in bianco "Vota Comunista".
Ma in sezione c'era pure una piccola biblioteca fatta di libri donati
dai compagni e a prendersene cura c'era proprio Lisciandrello. Era
come un bibliotecario che dava i libri in prestito e magari
sollecitava la restituzione a qualche ritardatario. Ma non c'era
libro in sezione che lui non avesse letto. Neanche gli impossibili ma
fondamentali testi del filosofo Galvano Della Volpe o quelli di
Augusto Del Noce, il papà dell'ex direttore del Tg1. Ogni tanto
veniva il vecchio compagno Gennaro, rappresentante a Palermo degli
Editori Riuniti, la casa editrice del Pci. Cercava di vendere qualche
libro ma Lisciandrello gli spiegava che quella non era una libreria.
Ma se proprio aveva qualche rimasuglio di catalogo...."
Compagno, ma sempre palermitano...
Ignazio era stalinista.
Era assolutamente convinto che qui in Italia bisognasse "fare
come in Russia". La Svolta di Salerno, la Via Italiana al
Socialismo, il Memoriale di Yalta di Togliatti non lo facevano
impazzire: si adeguava, diciamo così. Ma fosse stato per lui...
Tuttavia aveva per il Partito quel rispetto che neanche a un padre.
Il Partito era la casa accerchiata da difendere, a qualsiasi costo.
Chiunque lo minacciasse, con qualsiasi scusa, anche "da
sinistra", doveva essere contrastato, affrontato e sconfitto.
Così quando nel 1969 le abitudini del Pci vennero messe a dura prova
da quei monellacci del "Manifesto" Lisciandrello non ebbe
dubbi anche perché la Rossanda, Pintor, Natoli e compagnia bella non
perdevano occasione per accusare l'establishment del Partito di
essere "stalinista". Cosa che per Lisciandrello era il
contrario di un'offesa. Così, quando venne il giorno che alla
sezione Oreto si svolse, come in tutte le altre d'Italia, l'assemblea
dedicata alla valutazione dell'ipotesi di radiazione dal partito di
quelli del gruppo del Manifesto, la Federazione di via Caltanissetta
mandò il compagno Fantaci, un funzionario di partito che veniva
dalla classe operaia, un fiore di comunista magari poco fantasioso,
ma di innegabile abnegazione e disciplina oltre che splendido
organizzatore (fu anche deputato e segretario della camera del
lavoro). Fantaci parlò e si capiva che la decisione della radiazione
era stata già presa ma che il Partito voleva tastare il polso alla
sua base visto che il Sessantotto, con la nascita della Sinistra
Extraparlamentare, stava cominciando a costituire un pericoloso polo
di attrazione soprattutto per i giovani. Ma il funzionario, che non
era scemo e sapeva come si fanno queste cose, parlò col cuore in
mano quasi stupendosi che i "compagni del Manifesto" non si
rendessero conto di quanto fosse sbagliata la loro posizione.
Lisciandrello tenne
finche poté. Quando fu il suo turno si alzò (e quasi nessuno notò
la differenza visto che era piccolino) e pronunciò una vera
requisitoria contro chi aveva deciso di diventare "un agente
della borghesia" cercando di smussare la "punta di
diamante della classe operaia" per affermare solo "fisime
borghesi". Il severo Fantaci e la sua calibrata moderazione dei
toni sembravano quasi sotto accusa al punto che Fantaci stesso, in
sede di "conclusioni" (Le assemblee avevano il loro rituale
preciso) dovette precisare che "Dispiace sempre quando in una
grande famiglia, qualcuno decide di mettersi fuori e se ne va.
Tuttavia ciò non vuol dire che etc. etc...".
Un giorno ricevetti una
lettera da Bucarest, Romania. Era la risposta a una lettera che io
avevo mandato a una ragazza rumena il cui indirizzo avevo preso da
una rubrica su "Nuova Generazione", il periodico della
gioventù comunista. Io pensavo di scrivere a una giovane comunista
che viveva nel paese, per quanto ne sapevamo, più avanzato e
indipendente del blocco orientale, quello che aveva rifiutato di
entrare nel Patto di Varsavia e si era schierato con i Non Allineati.
Per noi Ceausescu era un grande, meglio ancora di Josip Broz Tito. La
compagna rumena me ne disse di tutti i colori e mi raccontò di come
al suo paese regnasse una burocrazia corrotta e pervicace e di come
la gente facesse la fame. Fu un brutto colpo per me, lo confesso. Che
potevo fare? lo stesso pomeriggio me ne trotterellai in sezione dove
c'era il compagno panellaro sulle cui spalle scaricai questo popo' di
problema. Lui mi guardò con gli occhi sornioni, mi fece un sorriso
dolcissimo poi mi chiese di leggere la lettera e io gliela diedi.
C'era pure una piccola foto tessera di una ragazza dal collo
lunghissimo, un po' "antica" rispetto agli standard
dell'epoca, biondissima con i capelli ricciolini. "Che compagna
sapurita", mi disse Lisciandrello. Poi si immerse nella lettura.
Alla fine mi guardò e mi disse. "Tu ci credi?" E io
risposi: "Certo non è conto che possono essere tutti agenti
della Cia, è giusto? Magari non se la passano tanto bene. Quindi la
risposa è sì: ci credo. Come siamo combinati compagno?". Lui
si alzo dalla sedia e cominciò a passeggiare avanti e indietro nella
stanzetta dove eravamo soli. Poi mi tenne una conferenza di circa
un'ora nel corso della quale mi dimostrò: a) che sapeva un sacco di
cose; b) che le sapeva raccontare; c) che era un gran furbacchione.
In sostanza mi spiegò l'ovvietà del detto secondo il quale non è
tutto oro quello che luccica. Che il socialismo aveva tanti problemi
ma il fatto è che era accerchiato dal capitalismo. Che nelle
periferie delle grandi città americane c'era chi moriva di fame e
che bastava anche andare in giro per Palermo, dove il terremoto di
pochi mesi prima aveva provocato la grande ondata di occupazioni di
case popolari a Borgo Nuovo e allo Zen, per capire che neanche
nell'opulento Occidente ce la passavamo tanto bene. Che un giovane ha
tanti desideri ma non sempre è possibile realizzarli naè a Bucarest
né a Palermo ma che laggiù non succede che uno muoia per mancanza
di assistenza sanitaria e tutti vanno a scuola e pure in vacanza coi
Pionieri, d'estate. Avevo 17 anni e al dito tenevo un anello di
alluminio fuso da un rottame di un aereo Usa abbattuto in Vietnam.
Chiedevo solo di essere convinto che la mia militanza era compatibile
con quella lettera. E Lisciandrello mi convinse. Poi il tempo passa,
si cresce. Ma questa è un'altra storia.
Ignazio Lisciandrello era
un uomo maturo e le sue ferree convinzioni avevano attraversato
pericoli ben maggiori di quelli che avevano assediato le mie. Agli
uomini di quel tempo bastavano pochi ma fondati motivi per sentirsi
dalla parte giusta e per agire di conseguenza. Senza se e senza ma,
si direbbe oggi. E non c'era attimo della loro giornata in cui tutto
quello che pensavano del mondo non trovasse posto. Forse fu per
questo che Ignazio Lisciandrello, militante comunista e panellaro, si
fece fare delle formelle tutte particolari. Non c'erano incisi i
motivi floreali classici ma una falce, un martello e una stella, il
simbolo del Pci. "Così - diceva - i fascisti non vengono
neanche per sbaglio".
Chissà se quelle
formelle esistono ancora. La sezione non più, e neanche il partito
comunista, e neanche Ceausescu. E io spero moltissimo che quella
ragazza che mi mise tanto in crisi oggi abbia tanti figli ma che
nessuno di loro sia qui in Italia a ubriacarsi o a battere il
marciapiedi dopo avere creduto che qui c'è il Bengodi così come io
credevo che nel loro ci fosse il paradiso dei lavoratori. Liberarsi
dalle bufale senza abiure non è stato facile ma tra quelli che mi
hanno aiutato c'è stato pure il compagno Lisciandrello e le sue
panelle rosse.
Per la precisione Peppe Schiera non viveva al Perez, non faceva lo scarparo... insomma inesattezze pesantucce. A chi interessa la Storia VERA di Peppe Schiera legga il mio libro http://robertoardizzone.oneminutesite.it/index.html
RispondiEliminahttp://robbardi.blogspot.it
Scusate l'intrusione ma amo troppo Peppe
Cordiali saluti.