15.11.15

Le panelle rosse del compagno Lisciandrello (Daniele Billitteri)

Dalla pagina fb “Comunisti a Palermo” recupero questo interessante racconto politico-gastronomico, opera di un giornalista di valore che conobbi quand'era un giovane comunista, entusiasta. (S.L.L.)

Furono panellari e comunisti. Di razza. Nel senso che panelle e rivoluzione segnarono due generazioni. Il che ci offre, quando siamo appena all'inizio, già una conclusione: le ideologie crollano e comunque passano, le panelle no.
Ignazio Lisciandrello, classe 1921, fece in tempo a vedere Achille Occhetto che alla Bolognina mandava in pensione il Pci, prima di mandare in pensione la sua panelleria di via Oreto. Nel Pds non entrò mai, ancorato com'era al manicheismo dell'ideologia: da una parte borghesi e capitalisti, dall'altra il proletariato e i morti di fame. Da "comunista senza tessera" se ne andò in giro per anni col suo amico Lo Giudice, in giro per musei e per archivi, cercando inutilmente di placare la sete di conoscenza che negli anni aveva fatto di lui, quinta elementare, autodidatta, un osso duro per i tanti intellettuali che da via Caltanissetta dove c'era la Federazione, "calavano" in via Oreto a spiegarci "com'era il fatto". Se ne andò nel 2001, come a prendere atto che il Terzo Millennio non era cosa sua e che era meglio sentirsi qualcuno alla fine del Secondo. Qualcuno che si era alzato ogni mattina cercando di trovare il sole oltre i tetti dei vicoli stretti del centro storico di Palermo, lo stesso sole che indicava, come in un quadro del realismo socialista, quando parlava coi ferrovieri, con gli "'gnuri", con gli inservienti e gli infermieri del Civico e del Policlinico. E gli diceva: “quello non è solo una stella, è l'avvenire".
Ignazio Lisciandrello era basso e tondo. Aveva i piedi piccoli e quando camminava aveva un'andatura un po' rotolante. Ma questo non gli toglieva certo carisma perché laddove il fisico aveva, se così si può dire, tradito lo stereotipo del Rivoluzionario, a compensare interveniva lo sguardo che sapeva essere radioso e tagliente, ispirato e furbacchione. Specialmente quando si accompagnava al sorriso quale che fosse: cortesia, affetto, ironia, divertimento. I suoi capelli che io ricordo sempre brizzolati, erano pettinati all'indietro, rigorosamente alla "mascagna": Niente barba né baffi: faccia liscia e espressione sempre solare anche nella rampogna.
Era nato nella "Villa dei Parrini", un diverticolo verde cui si accedeva sorprendentemente da un vicolo di via Oreto tra il Fondo Mendola e la via Gaspare Palermo. Un piccolo portico dava su un'area verde dove c'era un convento (da qui Villa dei Parrini, cioè villa dei preti). Lì c'era la "persiana" dei Lisciandrello.
La "persiana" è il classico "scuro" siciliano che ricopre balconi e finestre. Stile arabo che consente il massimo della flessibilità: aprendo o chiudendo le "scalette" puoi fare entrare solo la luce che ti serve o non farne entrare affatto. Ma, cosa importantissima, ti consente, tra le altre cose, di guardare senza essere visto. Questo riguarda "le" persiane. Ma quando dal plurale si passa al singolare, ecco che la "persiana" diventa una tipologia si direbbe oggi "abitativa", un luogo dove vivere al quale si accede, appunto, da una sorta di porta-finestra. La quale di solito dà accesso a una stanza da pranzo-tinello, poi c'è un'altra stanza dove di solito dormono i figli, poi un'altra ancora che è il talamo dei padroni di casa. In fondo, per ultimi, gabinetto e cucina i quali soventemente si affacciano su un terrazzino interno che magari d'estate consente qualche "arrostita" all'aperto di salsiccia o di sgombri e sarde.
I Lisciandrello erano in cinque: padre, madre, tre figli: un maschio, Ignazio, e due femmine. Il padre di Ignazio faceva il panellaro e per capire come fosse la sua vita è bene spiegare di cosa stiamo parlando.
Le panelle sono frittelle di farina di ceci impastata con acqua e sale. La farina si mette in un grande ancestrale pentolone pieno d'acqua e il tutto si mette su un fuoco bello allegro. Ma bisogna rimanere lì davanti a mescolare in continuazione come si fa con la polenta (lo avreste mai detto di questo solido legame coi "polentoni"?). A un certo momento il pentolone sembra contenere una sorta di lava giallina che fa "blop blop". A quel punto manca poco e, dopo quel poco, l'impasto si rovescia sopra una grande "balata" di marmo. E si lascia raffreddare ma non troppo. Accade infatti che l'ìmpasto, col diminuire della temperatura, si rapprende, tende a solidificarsi. Allora, per fare le panelle, bisogna intervenire in una fase di mezzo di questo processo. Così: con una spatola si raccoglie un po' di impasto e lo si spalma su una tavoletta di legno delle dimensioni medie di un palmo. Queste tavolette sono fatte di legno duro: "pich pine" (Pinopece), Palissandro, Noce o Ciliegio. Vi si spalma sopra un velo di impasto spesso due/tre millimetri e si mette da parte. Quando la panella da cremosa diventa solida, è pronta per essere staccata (basta rovesciare) dalla tavoletta per una successiva cottura tramite frittura.
Le crocchè, invece, si preparano lessando le patate con tutta la buccia (devono essere della razza di quelle che quando si cuociono non assorbono molta acqua e anche per questo si lessanosenza pelarle prima). Per questa operazione si impiega un pentolone dotato di un grande coperchio. Si usa pochissima acqua e una fiamma non troppo viva per fare in modo che le patate risultino lessate più dal vapore che dall'acqua. Una volta cotte si lasciano raffreddare, si pelano e si passano nell'apposito tritapatate, quello che in casa serve per fare la purea. Quando le patate sono passate, si aggiunge prezzemolo e poche foglioline di mentuccia e si preparano le crocchè rotolando un po' di impasto con una mano sul palmo dell'altra. Si chiamano anche "cazzilli" in omaggio al fatto che, a guardarle, certo sono un po' falliche.
Ora tutto questo lavoro preparatorio, quello che precede la frittura, di solito si fa in un luogo diverso da dove c'è la panelleria. Almeno a quel tempo. Nessuno era in grado di possedere o prendere in affitto un locale tanto grande da metterci vendita ma anche laboratorio di preparazione. Questi lavori di solito si facevano a casa sfruttando così pure la manodopera gratuita di mogli e figlie che certo non potevano andare a lavorare in friggitoria, luogo per definizione rude e spartano. Assolutamente maschile.
Così Lisciandrello senior preparava il suo materiale nel pomeriggio (le panelle pomeridiane o serali sono una conquista recente della ristorazione ex radical-chic) e disponeva panelle e crocchè da friggere nelle ceste di vimini ovali col manico. Preparava la quantità che gli garantiva di soddisfare la "domanda standard" dei suoi clienti e per limitare al minimo la sopravvivenza di invenduto. Quando ci fai l'occhio finisce sempre che agli ultimi clienti allarghi le braccia perché non hai più nulla. Se vuoi dare roba fresca.
Il fatto è che con le panelle non si può mentire per via del disegno. Esatto: le panelle sono "disegnate". Le tavolette sulle quali vengono spalmate, infatti, hanno l'incisione di alcune scanalature che assolvono sostanzialmente due compiti: trattenere l'impasto come fossero "fondamenta" e garantire la freschezza del prodotto. Perché una panella rifritta, perde il disegno e si vede subito.
Tra una panella e una crocchè Lisciandrello senior trovava il tempo per la politica. Era un comunista della prima ora nel senso che si interessava di politica ancora prima che il partito di Gramsci e Togliatti nascesse a Livorno da una costola del Partito Socialista di Turati e Treves. Era il 1921, lo stesso anno in cui era nato Ignazio. A dirlo sembra facile ma a Palermo, se nel resto d'Italia quelle erano idee che già stentavano a farsi strada, era ancora più difficile: città di baroni e sottoproletari, niente classe operaia e nemmeno piccola borghesia o classe media, pochi intellettuali, mafia, sbirri occhiuti. Per Lisciandrello senior la propaganda era rischiosa, ma non si tirava indietro forte anche di compagni d'avventura che sempre pronti a rischiare per la causa. Ma un vero rivoluzionario, per definizione, non può essere una leggenda clandestina: deve avere volto, parole e azione. Ma questa visibilità, ahimè, comprende pure i nemici, gli sbirri in primo luogo. Sbirri, intendiamoci, ben diversi da quelli che oggi onoriamo e anche piangiamo perché sono caduti lottando dalla parte di chi vuole scrollarsi di dosso la mafia e le sue metastasi. Lo sbirro-tipo di allora era più il Matteo Lo Vecchio dei Beati Paoli che il Montalbano di Camilleri.
Lisciandrello senior, che a metà degli anni Trenta già si portava dietro il giovane Ignazio, era ben conosciuto dalla squadra politica della questura. D'altra parte quello era un quartiere piuttosto turbolento da quel punto di vista, una vera spina nel fianco per il potere.
La via Oreto di Palermo è una lunga strada che da piazza Sant'Antonino porta verso le colline della Conca d'Oro tra Ciaculli e Croceverde Giardini, le borgate del mandarino tardivo e della mafia dei Greco. E' la naturale prosecuzione della via Maqueda, la stessa che ai quattro Canti incrocia il Cassaro creando gli storici Quattro Mandamenti. La via Oreto, dunque è l'asse principale di un quartiere che già alla fine dell'Ottocento era immediata periferia rispetto al centro, zona limitrofa alla Stazione centrale, arteria di grande movimento, collegamento tra la città e il suo opulento territorio Orientale, agricolo e mercantile.
Chi abitava nel quartiere? In maggioranza non erano poveracci e nemmeno ignoranti. C'erano, per esempio, tantissimi ferrovieri e quella era una categoria tradizionalmente attratta dalle idee di rinnovamento, un ambiente dove Socialismo e Anarchia avevano messo solide radici, gente che si muoveva, con la mente aperta, l'aristocrazia della classe operaia come i tipografi che dovendo saper scrivere, sapevano anche leggere con tutte le conseguenze del caso. Poi c'erano quelli che lavoravano all'Ospedale Civico e al Policlinico universitario: infermieri, inservienti, impiegati, medici, professoroni, alti burocrati, ambiente accademico. I più "in alto" di questo settore certo non abitavano nel quartiere ma ci vivevano per molte ore della loro giornata. Ma gli altri avevano casa lì attorno, tra la via Oreto e il rione che poi si chiamò Montegrappa. Nel quartiere c'erano numerose scuole elementari ma anche alcune scuole medie come il Perez nell'omonima strada. La stessa dove viveva un personaggio che per i palermitani è leggendario: Peppe Schiera, lo scarparo poeta e antifascista che il cuore, l'amore e la testa di Salvo Licata hanno salvato dall'oblio e restituito alla città. Peppe Schiera faceva il calzolaio ma si divertiva a scrivere versi con l'unico obiettivo di sbeffeggiare il Fascismo in quanto Stato, Regime. Era uno capace di ricordare la vittoria del Piave con le parole "Ma viri quantu foru fissa i fanti: avevano ri irisinni e ghieru avanti" cantata sul motivetto di "24 maggio".
Naturalmente ogni volta che a Palermo si presentava qualcuno "col giummo", cioè un importante gerarca fascista, la squadra politica della questura faceva il giro e portava in carcere per qualche giorno i "noti sovversivi" caricando sulle carrozze-cellulare pure i tipi come Beppe Schiera che se ne andavano gridando "Na curazzata ra nostra Armata, si scuntrò cu una pignata. E nisciu tutta ammaccata: a curazzata".
I Lisciandrello erano conosciuti come "sovversivi" ma, da buoni palermitani, cercavano di tenere sempre in equilibrio la coscienza politica e civile con la necessità di campare la famiglia. E l'arguzia alleggeriva il peso di dovere "moderarsi" per non finire in galera. Vediamo come.
Dovete sapere che, periodicamente, il partito fascista di Palermo, nel quadro di un'alacre attività sul territorio, organizzava una serie di controlli che puntavano in qualche modo a verificare che la popolazione vivesse pervasa da quella mistica fascista che era fatta di modi di dire (il "voi" che sostituiva il "lei"), di modi di fare (niente strette di mano, meno che mai abbracci e baci: solo virili saluti romani), di modi di vestire (camicia nera e orbace nelle occasioni comandate). Tra gli obblighi per i commercianti, c'era quello di tenere nel proprio esercizio un Crocifisso, la foto del Re Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d'Italia e Imperatore dell'Africa Orientale (che i palermitani chiamavano "sciaboletta visto che il "re soldato" era così basso che avevano dovuto cambiare le dimensioni della sciabola d'ordinanza, troppo lunga per lui). Ma soprattutto doveva esserci una bella fotografia del Cavaliere. No, non quello, che allora era solo un bambino. Qui si parla del Cavaliere Benito Mussolini, Duce del Fascismo. La foto ufficiale preferita, specialmente negli anni della guerra era quelle del maschio profilo del Duce con l'elmetto militare, la possente e volitiva mascella che cercava di uscire dalla cornice per liberarsi dall'espressione truce della bocca.
Le foto venivano distribuite dalla corporazione dei commercianti e ogni esercente aveva l'obbligo di esibirle. E, ogni tanto, una squadra del partito passava a controllare.
La friggitoria dei Lisciandrello era un piccolo antro buio sul quale si affacciava il piano inclinato col fondo di alluminio sforacchiato dove si scodellavano panelle e crocchè perché perdessero l'olio in eccesso. Di lato c'era una piramide fatta di pagnottine col cimino che il forno di fronte consegnava venti alla volta. D'altra parte bastava chiamarli a voce per avvertirli che la scorta stava finendo e che mandassero le altre pagnotte. In fondo c'era una cucina in muratura con due grandi buchi per le padellone. Sotto si andava a legna, prima che alla fine degli anni Cinquanta, si facesse finalmente ricorso ai fornelloni e alle bombole di gas.
Alle pareti uno scaffale con qualche "burnia", vasi di vetro con la bocca larga, chiuse da un tappo di sughero. Si usavano per tenerci il sale e le spezie. C'era pure lo spazio per la licenza di esercizio incorniciata la cui mancata esibizione comportava una multa. E ci sarebbe stato pure lo spazio per le due foto del re e del duce. Ma i Lisciandrello avevano preso le foto, le avevano arrotolate e le avevano chiude dentro una delle "burnie". Così, quando si presentavano "quelli coi giummi" a chiedere conto e ragione del perché le due foto non facessero bella mostra di sè sulle pareti, loro candidamente rispondevano di averle chiuse nelle burnie proprio per proteggerle. Proteggerle? E da cosa?. "Vede caro camerata, il fatto è che questa panelleria è. E nella panelleria certo qualche mosca gira. E poi succede che col tempo le mosche vanno a fare i bisogni proprio sulla fotografia del Duce. E un Duce cacato non si fa, è giusto?". E mi pare di vedere la faccia di Lisciandrello senior che si allarga nel migliore sorriso da figlio di puttana che si possa immaginare.
La friggitoria di via Oreto, negli anni Cinquanta, passò nelle mani di Ignazio che aveva lasciato la scuola dopo l'obbligatoria licenza elementare e da allora aveva sempre aiutato il padre nella gestione dell'esercizio. Ignazio aveva infiniti interessi e al lavoro dedicava il tempo indispensabile. Non che "arrunzasse". Tutt'altro. Apriva la friggitoria alle sette del mattino e alle undici aveva fatto fuori tutto. Poi cominciava a pulire. Alla fine della mattinata il piano inclinato di alluminio avrebbe potuto sostenere lenzuola di lino bianco senza che sul tessuto restasse traccia di unto. Quando tirava giù la saracinesca la friggitoria era più pulita di una farmacia. Per il resto seguiva i ritmi che aveva imparato dal padre. Ma il tempo libero lo dedicava tutto allo studio da autodidatta (specialmente la storia contemporanea e quella di Palermo), alla lettura quotidiana de "L'Unità" e settimanale di "Rinascita" e alla frequentazione degli amici. Anzi dei compagni. Erano passeggiate oppure, la domenica, il "giro" per la diffusione de "L'Unità" porta a porta. Fu così che la sezione Oreto del Pci nacque ancor prima di avere un locale. Tecnicamente si chiamava "cellula" (un nome che profuma ancora di cospirazione clandestina) e consisteva nel fatto che i compagni si riunivano ogni pomeriggio in casa di uno di loro a turno e discutevano della situazione politica a Roma, a Palermo ma, soprattutto, nel quartiere.
Fu proprio Lisciandrello a trovare i locali perché la cellula diventasse sezione a tutti gli effetti. Una stanza e un bagno esattamente sopra la sua friggitoria. In sezione si entrava da una porticina tra il locale e il bar Di Gesù, dopo avere salito una ripida scaletta. E il compagno Lisciandrello ne diventò il tesoriere e responsabile del tesseramento. Ma era anche quello che "dettava i ritmi" della sezione perché era lui il primo ad arrivare (e ad aprire) e l'ultimo ad andarsene (e a chiudere). I compagni andavano, discutevano oppure partecipavano ad assemblee su un fatto specifico o ai congressi. In sezione arrivava il materiale di propaganda inviato dalla Federazione: opuscoli, libretti, i famosi manifesti azzurri col simbolo al centro e la scritta in bianco "Vota Comunista". Ma in sezione c'era pure una piccola biblioteca fatta di libri donati dai compagni e a prendersene cura c'era proprio Lisciandrello. Era come un bibliotecario che dava i libri in prestito e magari sollecitava la restituzione a qualche ritardatario. Ma non c'era libro in sezione che lui non avesse letto. Neanche gli impossibili ma fondamentali testi del filosofo Galvano Della Volpe o quelli di Augusto Del Noce, il papà dell'ex direttore del Tg1. Ogni tanto veniva il vecchio compagno Gennaro, rappresentante a Palermo degli Editori Riuniti, la casa editrice del Pci. Cercava di vendere qualche libro ma Lisciandrello gli spiegava che quella non era una libreria. Ma se proprio aveva qualche rimasuglio di catalogo...." Compagno, ma sempre palermitano...
Ignazio era stalinista. Era assolutamente convinto che qui in Italia bisognasse "fare come in Russia". La Svolta di Salerno, la Via Italiana al Socialismo, il Memoriale di Yalta di Togliatti non lo facevano impazzire: si adeguava, diciamo così. Ma fosse stato per lui... Tuttavia aveva per il Partito quel rispetto che neanche a un padre. Il Partito era la casa accerchiata da difendere, a qualsiasi costo. Chiunque lo minacciasse, con qualsiasi scusa, anche "da sinistra", doveva essere contrastato, affrontato e sconfitto. Così quando nel 1969 le abitudini del Pci vennero messe a dura prova da quei monellacci del "Manifesto" Lisciandrello non ebbe dubbi anche perché la Rossanda, Pintor, Natoli e compagnia bella non perdevano occasione per accusare l'establishment del Partito di essere "stalinista". Cosa che per Lisciandrello era il contrario di un'offesa. Così, quando venne il giorno che alla sezione Oreto si svolse, come in tutte le altre d'Italia, l'assemblea dedicata alla valutazione dell'ipotesi di radiazione dal partito di quelli del gruppo del Manifesto, la Federazione di via Caltanissetta mandò il compagno Fantaci, un funzionario di partito che veniva dalla classe operaia, un fiore di comunista magari poco fantasioso, ma di innegabile abnegazione e disciplina oltre che splendido organizzatore (fu anche deputato e segretario della camera del lavoro). Fantaci parlò e si capiva che la decisione della radiazione era stata già presa ma che il Partito voleva tastare il polso alla sua base visto che il Sessantotto, con la nascita della Sinistra Extraparlamentare, stava cominciando a costituire un pericoloso polo di attrazione soprattutto per i giovani. Ma il funzionario, che non era scemo e sapeva come si fanno queste cose, parlò col cuore in mano quasi stupendosi che i "compagni del Manifesto" non si rendessero conto di quanto fosse sbagliata la loro posizione.
Lisciandrello tenne finche poté. Quando fu il suo turno si alzò (e quasi nessuno notò la differenza visto che era piccolino) e pronunciò una vera requisitoria contro chi aveva deciso di diventare "un agente della borghesia" cercando di smussare la "punta di diamante della classe operaia" per affermare solo "fisime borghesi". Il severo Fantaci e la sua calibrata moderazione dei toni sembravano quasi sotto accusa al punto che Fantaci stesso, in sede di "conclusioni" (Le assemblee avevano il loro rituale preciso) dovette precisare che "Dispiace sempre quando in una grande famiglia, qualcuno decide di mettersi fuori e se ne va. Tuttavia ciò non vuol dire che etc. etc...".
Un giorno ricevetti una lettera da Bucarest, Romania. Era la risposta a una lettera che io avevo mandato a una ragazza rumena il cui indirizzo avevo preso da una rubrica su "Nuova Generazione", il periodico della gioventù comunista. Io pensavo di scrivere a una giovane comunista che viveva nel paese, per quanto ne sapevamo, più avanzato e indipendente del blocco orientale, quello che aveva rifiutato di entrare nel Patto di Varsavia e si era schierato con i Non Allineati. Per noi Ceausescu era un grande, meglio ancora di Josip Broz Tito. La compagna rumena me ne disse di tutti i colori e mi raccontò di come al suo paese regnasse una burocrazia corrotta e pervicace e di come la gente facesse la fame. Fu un brutto colpo per me, lo confesso. Che potevo fare? lo stesso pomeriggio me ne trotterellai in sezione dove c'era il compagno panellaro sulle cui spalle scaricai questo popo' di problema. Lui mi guardò con gli occhi sornioni, mi fece un sorriso dolcissimo poi mi chiese di leggere la lettera e io gliela diedi. C'era pure una piccola foto tessera di una ragazza dal collo lunghissimo, un po' "antica" rispetto agli standard dell'epoca, biondissima con i capelli ricciolini. "Che compagna sapurita", mi disse Lisciandrello. Poi si immerse nella lettura. Alla fine mi guardò e mi disse. "Tu ci credi?" E io risposi: "Certo non è conto che possono essere tutti agenti della Cia, è giusto? Magari non se la passano tanto bene. Quindi la risposa è sì: ci credo. Come siamo combinati compagno?". Lui si alzo dalla sedia e cominciò a passeggiare avanti e indietro nella stanzetta dove eravamo soli. Poi mi tenne una conferenza di circa un'ora nel corso della quale mi dimostrò: a) che sapeva un sacco di cose; b) che le sapeva raccontare; c) che era un gran furbacchione. In sostanza mi spiegò l'ovvietà del detto secondo il quale non è tutto oro quello che luccica. Che il socialismo aveva tanti problemi ma il fatto è che era accerchiato dal capitalismo. Che nelle periferie delle grandi città americane c'era chi moriva di fame e che bastava anche andare in giro per Palermo, dove il terremoto di pochi mesi prima aveva provocato la grande ondata di occupazioni di case popolari a Borgo Nuovo e allo Zen, per capire che neanche nell'opulento Occidente ce la passavamo tanto bene. Che un giovane ha tanti desideri ma non sempre è possibile realizzarli naè a Bucarest né a Palermo ma che laggiù non succede che uno muoia per mancanza di assistenza sanitaria e tutti vanno a scuola e pure in vacanza coi Pionieri, d'estate. Avevo 17 anni e al dito tenevo un anello di alluminio fuso da un rottame di un aereo Usa abbattuto in Vietnam. Chiedevo solo di essere convinto che la mia militanza era compatibile con quella lettera. E Lisciandrello mi convinse. Poi il tempo passa, si cresce. Ma questa è un'altra storia.
Ignazio Lisciandrello era un uomo maturo e le sue ferree convinzioni avevano attraversato pericoli ben maggiori di quelli che avevano assediato le mie. Agli uomini di quel tempo bastavano pochi ma fondati motivi per sentirsi dalla parte giusta e per agire di conseguenza. Senza se e senza ma, si direbbe oggi. E non c'era attimo della loro giornata in cui tutto quello che pensavano del mondo non trovasse posto. Forse fu per questo che Ignazio Lisciandrello, militante comunista e panellaro, si fece fare delle formelle tutte particolari. Non c'erano incisi i motivi floreali classici ma una falce, un martello e una stella, il simbolo del Pci. "Così - diceva - i fascisti non vengono neanche per sbaglio".

Chissà se quelle formelle esistono ancora. La sezione non più, e neanche il partito comunista, e neanche Ceausescu. E io spero moltissimo che quella ragazza che mi mise tanto in crisi oggi abbia tanti figli ma che nessuno di loro sia qui in Italia a ubriacarsi o a battere il marciapiedi dopo avere creduto che qui c'è il Bengodi così come io credevo che nel loro ci fosse il paradiso dei lavoratori. Liberarsi dalle bufale senza abiure non è stato facile ma tra quelli che mi hanno aiutato c'è stato pure il compagno Lisciandrello e le sue panelle rosse.

1 commento:

  1. Roberto Ardizzone26/7/17 14:55

    Per la precisione Peppe Schiera non viveva al Perez, non faceva lo scarparo... insomma inesattezze pesantucce. A chi interessa la Storia VERA di Peppe Schiera legga il mio libro http://robertoardizzone.oneminutesite.it/index.html
    http://robbardi.blogspot.it
    Scusate l'intrusione ma amo troppo Peppe
    Cordiali saluti.

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