6.12.15

Il Diario di Dimitrov. Gli anni di Mosca (Fabio Bettanin)

Georgi Dimitrov
Ogni momento storico si distingue per le testimonianze che i suoi protagonisti hanno lasciato dietro di sé. Quanti nel futuro ripenseranno l’esperienza storica che ha condotto al crollo dell’Urss non potranno prescindere dalle pur opache memorie di Gorbacev, e da quelle più interessanti di suoi collaboratori, come Cernaev, Jakovlev, Sachnazarov, Bakatin, Sevarnadze, e persino da quelle di golpisti come Krjuckov e Janaev. In questo caso, si è rivelata esatta l’osservazione di Hobsbawm: “Nulla rende acuta la mente dello storico come la sconfitta”. Per il periodo staliniano vale il principio opposto. Oltre ad essere inaffidabili nell’interpretazione delle singole vicende, le memorie di stalinisti come Molotov e Kaganovic, ma anche dei destalinizzatori Chruscév e Mikojan, sono afflitte dall’hubris di chi interpreta successi di breve periodo in chiave teleologica, scorgendovi l’espressione di tendenze storiche di lungo periodo.
In questo panorama il Diario tenuto da Georgi Dimitrov dal marzo 1933, momento del suo arresto in Germania, dove era rappresentante del Comintern, sino alla sua morte, avvenuta in Bulgaria nel febbraio 1949, è un documento unico sia per la natura dello scritto, contestuale agli avvenimenti narrati, sia per la personalità dell’autore, che ha sempre goduto della fama di staliniano “diverso”. L’edizione italiana (a cura di Silvio Pons con ttraduzione di Fausto Ibba, Einaudi, 2002) raccoglie il periodo centrale della parabola politica di Dimitrov: gli “anni di Mosca”, dove egli ricoprì dal 1935 l’incarico di segretario generale del Comintern, e, dal 1943, di responsabile della sezione di informazione internazionale del VKP(b).
Cosa indusse Dimitrov a correre - unico fra i dirigenti comunisti - i rischi insiti nella decisione di tenere una cronaca della sua vita personale e dell’attività pubblica? Il Diario non era destinato alla pubblicazione. L’andamento rapsodico, l’assenza di rivelazioni o di messaggi esopici di opposizione al regime staliniano, lasciano pochi dubbi in merito, e questo forse spiega la “scarsa attenzione” che - lamenta Pons - ha fatto seguito alla prima edizione del Diario, a Sofia, nel 1997. La risposta al nostro interrogativo va dunque trovata nel più ovvio dei motivi. A un certo momento della sua vita Dimitrov decise di affidare alla parola scritta la definizione della sua nuova condizione personale e politica. L’accusa di aver organizzato l’incendio del Reichstag, la fermezza con la quale aveva sostenuto nel corso del processo il contraddittorio con Goering, l’assoluzione, avevano dato fama mondiale a un relativamente oscuro dirigente comunista. Nonostante le accoglienze da eroe, l’ambientamento a Mosca non fu facile. La confessione di infelicità che Dimitrov fece a pochi giorni dall’arrivo non si ripeté più, ma dalle pagine del Diario emerge una vita personale tormentata da lutti, malattie e ansie per la sorte dei suoi cari, e soprattutto segnata dalla solitudine.
Ad amareggiare Dimitrov contribuì anche il mancato inserimento nella cerchia dei dirigenti più vicini a Stalin. Nel corso del periodo moscovita, Dimitrov fu ammesso solo tredici volte a colloquio nel gabinetto del vozd. I contatti di carattere non ufficiale furono più numerosi, ma si limitarono alla partecipazione a cene in occasione di anniversari o di compleanni, che non implicavano particolare intimità. Il disappunto con il quale, nel settembre 1938, Dimitrov annotò il silenzio sull’anniversario del processo di Lipsia, ha il sapore di una resa. Il suo eroico comportamento gli aveva garantito la cittadinanza sovietica e la direzione del Comintern, oltre non poteva andare.
Nemmeno i rapporti con i suoi più stretti collaboratori furono facili. Le pagine del Diario mostrano che egli condivideva il giudizio espresso da Stalin durante il loro primo incontro, il 7 aprile 1934: i quadri del Comintern non erano all’altezza della situazione. La solidarietà che a momenti mostrò nei loro confronti non lo spinse mai sino a sfidare la “linea generale”. Emblematica l’annotazione del 23 novembre 1938: “Moskvin è stato chiamato al Nkvd. Non è tornato!”. Tentò probabilmente di intercedere, ma Ezov rispose in modo sconfortante. Il 25 Dimitrov si rivolse a Stalin per chiedere la nomina del sostituto di Moskvin: far funzionare gli apparati era il primo dovere del segretario del Comintern. Simile, anche se con esiti non tragici, fu la vicenda di Togliatti. Pochi giorni dopo l’invasione tedesca, Dimitrov non esitò a raccogliere i sospetti che circolavano da tempo sulla condotta di Togliatti in Spagna, decidendo di “non renderlo partecipe di questioni segrete”. In questo clima di diffidenza non v’erano del resto spazi per lealtà e amicizia.
Nel Diario Dimitrov non tentò di tracciare un’immagine idealizzata di sé, ostentando sentimenti di partecipazione ai problemi del comune cittadino sovietico. In undici anni, si concesse solo una visita a un kolchoz, nel 1940, in Georgia: ovviamente, lo trovò splendido. Mai una volta si avventurò da solo nelle strade di Mosca, per vedere come vivevano i suoi concittadini. Nel maggio 1940, e poi nell’agosto 1942, registrò, senza commento e senza ulteriori iniziative, notizie di massacri di ebrei. Nella convinzione che i problemi personali non dovessero interferire con l’attività pubblica, nel rifiuto di porsi problemi per i quali non v’erano soluzioni politiche, Dimitrov mostra di aver assimilato i valori fondanti del regime, e il Diario può essere letto come la ricostruzione, unica nel suo genere, della Bildung di un dirigente staliniano. Di questo processo, la registrazione dei momenti di partecipazione alle liturgie del gruppo dirigente è l’aspetto che assorbe più spazio.
Con zelo Dimitrov annotò le analisi che Stalin faceva della situazione interna e internazionale in occasione degli incontri con i dirigenti sovietici. Difficile pensare che i suoi commenti entusiasti siano sempre sinceri. Possibile che Dimitrov non avvertisse la grossolanità della descrizione che Stalin fece nel 1934 delle masse europee, afflitte da una “psicologia da gregge”, e “inclini a marciare con la propria borghesia”? O che condividesse tutte le fobie di Stalin sul trockismo dei “nemici del popolo”? O che non cogliesse l’aspetto grottesco del pianto di Vorosilov, uno degli staliniani della prima ora, umiliato pubblicamente per le sue responsabilità negli insuccessi della guerra con la Finlandia?
Si può qui condividere il giudizio che dà Pons nell’introduzione: Dimitrov aveva introiettato il culto del capo come “autorità di natura politica”. In omaggio a questo principio, dopo aver registrato sul Diario, il 21 giugno 1941, le “voci sull’imminente aggressione”, il giorno dopo, convocato al Cremlino, lodò, mentre le truppe tedesche avanzavano approfittando della sorpresa, la “sorprendente calma, fermezza, sicurezza in Stalin e in tutti gli altri”. Non si può d’altra parte non pensare che, per lo stesso motivo, il “rapporto segreto” di Chruscév tentò di smontare il culto di Stalin con la falsa versione di un prolungato smarrimento di Stalin dopo l’attacco tedesco.
Quale che fosse l’opinione di Dimitrov su singole vicende, dal Diario emerge con chiarezza che restò sempre convinto che la formazione di fronti nazionali antifascisti fosse, in Europa occidentale, un passaggio necessario verso il socialismo. La firma del patto Ribbentrop-Molotov assestò un duro colpo a questa linea; il coinvolgimento dell’Urss nella guerra lo rilanciò, rendendo paradossalmente definitiva l’emarginazione di Dimitrov dai centri del potere. La dettagliata cronaca del Diario conferma che l’alta priorità accordata alla collaborazione con le altre potenze antifasciste indusse Stalin, dopo un lungo periodo di disinteresse per il Comintern, a occuparsi in prima persona dell’attività dei partiti comunisti, lasciando a Dimitrov il compito ingrato di richiamare all’ordine i partiti comunisti troppo settari. Dimitrov continuò comunque a nutrire la convinzione che anche nel dopoguerra sarebbe stato possibile collaborare con gli Usa, e con le altre potenze della coalizione antifascista, e allo stesso tempo puntare alla diffusione del socialismo in Europa. A quanto è oggi noto, lo stesso Stalin e buona parte del gruppo dirigente sovietico condividevano questa illusione. La replica giunse, in questo caso, dalla realtà. Tornato in Bulgaria, Dimitrov si mostrò cattivo discepolo di sé stesso. Agì con brutalità e settarismo, contribuendo anche lui alla rapida trasformazione delle “democrazie popolari” in regimi di tipo staliniano.
È certo un peccato che l’edizione italiana del Diario di Dimitrov non comprenda gli anni del dopoguerra; ma non si poteva chiedere troppo a una impresa da lodare per la cura scrupolosa e per l’ottima traduzione. Il lettore può solo immaginare che questa fu la pagina più amara della vita di Dimitrov, che vide realizzarsi e poi disfarsi in breve tempo le speranze di decenni.


“L'Indice”, dicembre 2002  

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