19.12.15

Il Pci all'inizio degli anni sessanta (Lucio Magri)

Il Pci arrivava agli inizi degli anni sessanta in condizioni promettenti. Rappresentava ormai un quarto degli elettori e conservava quasi due milioni di iscritti, per lo più attivi; era parte di un movimento internazionale che governava un terzo del mondo, ma nel quale aveva finalmente acquisito una propria autonomia; raccoglieva simpatia, o almeno attenzione, nei paesi e nei movimenti che si stavano liberando dal colonialismo; manteneva un’influenza rilevante nel sindacato senza più considerarlo una «cinghia di trasmissione»; era incoraggiato, e a sua volta incoraggiava, una classe operaia più estesa e che dava nuovi segnali di combattività; incontrava una generazione politicizzata e un’intellettualità nella quale finalmente penetrava un marxismo non più dogmatico e canonico; avviava un dialogo con minoranze cattoliche gradualmente affrancate dall’anticomunismo «assoluto» di papa Pacelli; governava con buoni risultati, oltre la corretta amministrazione corrente, importanti regioni del paese. Soprattutto era ormai unito e convinto su una strategia univocamente definita, almeno nei suoi princìpi, dall’VIII congresso: la «via italiana». Era ancora inchiodato all’opposizione dai vincoli imposti all’Italia dalle alleanze già contratte, ma il nuovo rapporto di forza mondiale lo garantiva da un intervento americano armato, se e quando avesse conquistato un ruolo di governo in modo pacifico e legale. Tutto questo lo obbligava e gli permetteva di verificare con i fatti, almeno nel medio periodo, se la «via democratica al socialismo» era praticabile in Occidente, portava là dove voleva andare, senza perdersi per strada.
Si apriva quindi per il Pci, per quel Pci, una partita nuova, nella quale erano in gioco l’identità faticosamente costruita e la sua futura esistenza. Anzi, a ben vedere, la posta era ancora più alta. Perché proprio in quel momento, se non interveniva in Occidente qualche mutamento, se lo scontro fra i blocchi restava solo una «guerra condotta con armi nuove», in altre parti del mondo (in Urss o nei paesi non allineati) potevano presto prevalere, e già si intravedevano, tendenze di ripiegamento o di divisione. Forse solo in Italia sembravano esistere alcune condizioni - forze e volontà - per avviare un tale mutamento.

Ma era realmente una partita aperta? Cinquant’anni dopo, sappiamo come si è conclusa. Il Pci, come forza organizzata e come pensiero compiuto, è morto. E pressoché nessuno ne rivendica l’eredità. Non è morto per un improvviso colpo apoplettico, cioè trascinato nel crollo dell’Unione Sovietica, dalla quale aveva da tempo preso le distanze. Né per estenuazione, perché ha mantenuto fino alla scomparsa una forza elettorale notevole (il 28%), e un peso nella società e nel sistema politico. E morto per libera scelta, con l’ambizione di un «nuovo inizio». Quel nuovo inizio non c’è stato, e ormai è chiaro a tutti che, se anche avesse avuto maggiore successo, sarebbe stato l’inizio di una cosa del tutto diversa. Questo è un fatto: così evidente e ormai così duraturo che non si può rimuovere, ma che va spiegato. Perché una forza che negli anni sessanta raggiungeva la propria maturità, era ancora in piena ascesa e si impegnava in un tentativo originale e ambizioso, dopo anni di ulteriori successi cominciò a declinare, fino a dissolversi?

da Il sarto di Ulm, Il Saggiatore, 2009

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