8.1.16

Cronachette di fine scuola (S.L.L.)

L'articolo a mia firma che segue, da un “micropolis” del 1999, racconta la conclusione di un anno scolastico in una scuola perugina, e insieme segna per me il commiato da un mestiere praticato per alcuni decenni, da un mondo in cui ero entrato quasi in fasce e da cui non ero più uscito. La cronaca mi pare svolta puntualmente, la riflessione non mi sembra granché; la lettura tuttavia può essere utile a chi ancora vive in quel mondo per fare il punto, per verificare le trasformazioni recenti, credo grandi. (S.L.L. - gennaio 2016)
Un corridoio del liceo classico "Annibale Mariotti" di Perugia
A volte i mutamenti di clima politico e culturale sono anticipati da piccoli segnali, a cui si tende a dare poca importanza, ma che sono forse una spia più efficace di tanti studi sociologici. Ho avuto la sensazione precisa di trovarmi di fronte a qualcuno di codesti segnali, in questi giorni di fine anno scolastico in cui mi preparo a lasciare il mestiere d'insegnante che ho praticato per trent'anni.
Nella scuola ove esercito, il Mariotti di Perugia, è tradizione concludere le lezioni con una cerimonia: si premiano i vincitori delle borse di studio e delle gare sportive, si dà conto dei successi conseguiti, si mettono in mostra le glorie. La cosa dovrebbe esaltare l'orgoglio dell'appartenenza e lo spirito di corpo negli insegnanti e negli studenti, ma non sempre funziona. Il rito, del resto, ha conosciuto alti e bassi: ci sono stati anni in cui è caduto in disuso, anni in cui si è compiuto in forma stanca e dimessa, anni in cui, per l'effetto convergente di spinte interne ed esterne, ha riscosso successi di partecipazione, suscitato commozioni ed entusiasmi più o meno autentici, ottenuto spazi nella stampa e nelle televisioni locali. L'anno scorso per esempio c'erano il sindaco, il comandante dei carabinieri, il provveditore agli studi, assessori e deputati nella Sala dei Notari affollata, quest'anno, invece, la premiazione si è svolta in sordina, il 9 giugno, uno dei giorni più caldi della campagna elettorale, nel salone della biblioteca dell'istituto. Per una sorta di par condicio applicata al mondo scolastico, gli organizzatori hanno limitato gli inviti a genitori e sponsor dei premi, onde evitare una peraltro inutile passerella di notabili.
Introduce, come d'obbligo, il preside, che ha il compito di tracciare il bilancio dell'anno scolastico appena concluso. Non parla della “normale” attività della scuola: la sua attenzione è tutta rivolta ai cosiddetti progetti, il “Paideia”, l' “Aristotelion” e consimili, agli spettacoli teatrali, alle gare vinte dai “nostri” atleti, al successo che l'orchestra da camera ed il coro hanno ottenuto nei festival della Mitteleuropa. I suoi calorosi elogi e ringraziamenti, oltre che agli sponsor, vanno esclusivamente agli studenti entusiasti ed agli insegnanti iperattivi nel “para” e nell' “extra”, cui va ascritto il merito di aver fatto risplendere lo stendardo del liceo nella città, nella regione, in Italia e nel mondo.
Parlano poi i rappresentanti degli studenti. Una ragazza del Consiglio d'Istituto sobriamente lamenta una partecipazione studentesca ancora limitata alle pur valide iniziative di rinnovamento della scuola. Un giovanotto, poi, racconta della Consulta Provinciale degli studenti: “E’ poco conosciuta - spiega - ma abbiamo una struttura interna efficientissima, un presidente, quattro vicepresidenti, sei presidenti di commissione”. Nella sala s'ode una voce, forse di un insegnante: “Come ai tempi della DC!”; ma lo studente non sente o fa finta di non sentire, è probabile che ignori del tutto i fasti del doroteismo e le moltiplicazioni delle presidenze e perciò non intende l'allusione. Conclude: “Siamo noi i protagonisti!”. Parla un terzo studente il quale chiarisce che tra le glorie del protagonismo studentesco ci sono la manifestazione per la sede del liceo ed i venti giorni di occupazione dell'istituto, sulla cui efficacia dimostra qualche dubbio. C'è qualche brusio di disapprovazione.
La cerimonia prosegue con consegne di medaglie, coppe e coppette, canti, chitarrate e discorsetti di insegnanti sui vari progetti, fino alle sua conclusione.
Gli insegnanti intanto parlano d'altro, di fasce, di crediti, di debiti, di decimali. Sono in corso gli scrutini e, poveretti, sono alle prese con la prima applicazione delle norme del nuovo esame di stato. Si sono fatti centinaia di corsi di aggiornamento in provincia, convegni di presidi ed insegnanti volenterosi, si sono distribuiti opuscoli e fascicoli pieni di spiegazioni, con tabelle, schemi ed esempi, ma l'interpretazione resta controversa e da viale Trastevere arrivano, un giorno sì un giorno no, circolari ed ordinanze di chiarimento, che sono a loro volta di incerta interpretazione. Una delle questioni più dibattute riguarda il cosiddetto CF (credito formativo), innovazione così cara al ministro da farne oggetto di pubblicità televisiva. Nello spot che propaganda il nuovo esame come più serio e completo la voce parlante diretta agli studenti recita: “Potrai far valere le competenze conseguite a scuola (Pausa) ed anche fuori dalla scuola (Nuova pausa)”. La cosa è in apparenza semplice: nel voto d'esame alcuni punti (pochi per fortuna, al massimo 5 su 100) sono assegnati sulla base di esperienze formative certificate svolte fuori dalla scuola: attività culturali, partecipazioni a corsi, volontariato, manifestazioni sportive e via di seguito. Gli ispettori che sono andati in giro ad illustrare la cosa portano come caso esemplare quello dello studente che vince la medaglia d'oro alle Olimpiadi ed aggiungono che non si può valutare allo stesso modo il ragazzo che ha frequentato il corso di nuoto nella piscina di quartiere.
La conseguenza di questa innovazione è che s'è, fin dall'inizio, creata una discriminazione tra chi ha potuto certificare tante attività e chi no (premiando così il costume piccolo borghese di mammine e babbini che stressano figli e figlie con corsi di lingua, di danza, di nuoto, di ginnastica ritmica, da cui il più delle volte i ragazzi escono nauseati e rimbecilliti), un'altra discriminazione tra chi ha partecipato a consimili attività svolte a scuola e chi invece le ha svolte fuori (il corso di giornalismo seguito a scuola non vale credito formativo, tutt'al più credito scolastico, quello svolto fuori sì), ma creando soprattutto una corsa alla certificazione compiacente ed una difficoltà assoluta per gli insegnanti a valutare la qualità delle esperienze fatte, garantite dagli enti più vari e stravaganti, dalle parrocchie che attestano il volontariato sociale ai Centri Studi sulla Cucina del Mali.
Si ha un bel dire che, alla fine, queste esperienze sul voto incidono poco: il messaggio che giunge agli studenti ed alle famiglie è diverso e di sicuro non molto educativo, ha però il fascino dell'America (è lì che il successo scolastico, come mostrano film e telefilm, non dipende soltanto dalla conoscenza della storia, della grammatica o della matematica, ma anche dalle vittorie nei tornei di basket o di scacchi) ed è perciò suggestivo ed efficace.
Non sono mancati neanche al Mariotti i casi di ragazzi che all'andazzo si sono ribellati, uno studente ed una studentessa, notoriamente impegnati lui nella Lega Ambiente, lei in Mani Tese, che si sono rifiutati di certificare il loro volontariato, con l'obiezione elementare che se è volontariato si fa gratis: mosche bianche, casi pressoché patologici di moralismo giovanile, quasi incomprensibili nel tempo della competitività totale.
L'ultima appassionata discussione tra insegnanti riguarda la Commissione del POF. Dovrebbe significare Piano dell'Offerta Formativa, ma non ne sono del tutto sicuro: da qualche anno nelle scuole è invalso l'uso sistematico di sigle orribili e talora incomprensibili, una sciatteria importata nelle scuole dalle caserme, così ci sono il Cd'I, il CS, il CF, la CPS, i PEI, gli IDEI e, da ultimo, il POF, per l'appunto. Il nuovo contratto promette che da qui a qualche anno si premieranno più consistentemente gli insegnanti più bravi ed impegnati, e le cosiddette figure di sistema, quelli che fanno il coordinamento didattico, che curano gli scambi culturali, i laboratori, i rapporti con le famiglie, etc., ma la materia è tutta da regolare. I presidi intanto, inseriti per le legge nella dirigenza statale ed imboniti da qualche sociologo imbecille che prospetta per loro un ruolo di manager, cercano di controllare loro le nomine di commissioni di studio e l'attribuzione di responsabilità.
Fino a un paio di anni fa questi ruoli erano rogne da scansare, ci si entrava per volontariato, autoproponendosi, e chi li ricopriva era al tempo stesso oggetto di ammirazione per la sua abnegazione missionaria e di compianto, adesso c'è la corsa ad occuparli, ma i presidi vogliono decidere loro. Da noi non è stato così: il preside s'è tenuto signorilmente alla larga dalla questione ed ha lasciato che il vicepreside, eletto dagli insegnanti, formulasse lui una proposta. La cosa ha comunque suscitato lamentele.
Gli studenti si arrabattano con i certificati per cinque punti, gli insegnanti si spintonano per svolgere attività preminentemente burocratiche e sovente inutili per cinque lire. Così va il mondo.
Lo stesso giorno in cui i docenti nel loro collegio si impegnano in queste discussioni la scuola, che ha già chiuso i battenti per le lezioni, è animata da una folta presenza di studenti, cinquanta, forse cento. Sono venuti per l'IG Students, ove la sigla vale Imprenditoria Giovanile. Il ministro Bassolino ha raccontato in televisione che si tratta di una grande operazione educativa: i ragazzi sono sollecitati a costruire un'impresa che escogiti un prodotto e lo venda sul mercato. C'è un piccolo rischio d'impresa, una milionata da raccogliere tra gli studenti che vi partecipano in gruppi di 10-20, tutto il resto è simulazione. C'è chi ha escogitato pantofole con la lampadina, chi adesivi dalle forme più bislacche per personalizzare i diari, chi maglie colorate, ed è riuscito a vendere qualche pezzo con l'incoraggiamento dell'istituzione. Si dice che così si educhi la voglia e la capacità di mettersi in proprio dopo la scuola, di inventarsi il lavoro. Da quel che se ne sente e se ne vede la cosa è sostanzialmente un gioco, un gioco di società e di simulazione, una sorta di caccia al tesoro, un moderno Monòpoli proiettato sul territorio. Ma tutto fa brodo.
Questa la non commendevole cronaca dei giorni di fine scuola.
La domanda è: di quali processi possono essere segnali questi fatterelli e quelli analoghi verificatisi in tante altre scuole? Intanto di un indirizzo politico e burocratico che, pur tra tante ambiguità, ha scelto il sistema americano.
Si critica, e giustamente, la contraddizione tra la conclamata autonomia delle scuole e il mantenimento di un governo centralistico, in cui sono ministri, direttori generali, ispettori e provveditori e presidi, sulla linea della piramide gerarchica e con l'uso incessante di ordinanze e circolari, ad obbligare le comunità scolastiche ad essere autonome.
C'è contraddizione, ed è segno di pressapochismo, tra la dichiarazione di far le scuole il centro prevalente, se non unico, della formazione, arricchendole di tante attività sportive, ricreative, sociali, culturali, dentro e fuori dal curricolo, e la valorizzazione nel voto d'esame di quel che si fa o si dichiara di fare fuori dalla scuola. Resta il fatto che la tendenza prevalente è la scoperta dell'America, l'imitazione acritica di un modello che molti studi seri denunciano come scadente.
A questa politica corrisponde forse una sorta di pedagogia governativa che valorizza l'esperienza, il momento, il frammento rispetto alla costruzione unitaria; anche di questo indirizzo si riconoscono molti segnali. Ma sarà il caso di scriverne un'altra volta, quando, in maniera meno soggettiva, nei prossimi mesi, proveremo a fare un bilancio sullo svolgimento in Umbria del nuovo esame di stato e cercheremo insieme di mettere a confronto le intenzioni con gli effetti.


micropolis, giugno1999

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