6.1.16

La biologia fai da te tra cantine e garage (Angela Simone)

Non so se fosse inevitabile in un articolo come quello che segue l'uso di termini inglesi. Forse no, forse si poteva trovare una parola o una locuzione italiana per esprimere quei concetti. Ma così non è stato e dovremo farcene una ragione. Bisognerà che noi vecchi ampliamo il nostro vocabolario a un buon numero di neologismi, anglismi ed angloacronimi soprattutto, indispensabili per intendere chi parla di nuove tecnologie e di organizzazione della ricerca scientifica e tecnologica.
Un articolo come quello che segue è infatti, nella sua linea fondamentale, di facile comprensione e chi lo ha scritto ha di sicuro eccellenti capacità di comunicazione. Se noi qua e là ci perdiamo negli hub e nei wet è perché siamo ignoranti. Ma, come diceva Celeste Negarville, è l'istruzione ad essere obbligatoria, l'ignoranza è facoltativa. (S.L.L.)

Il genome editing è così facile da usare e relativamente poco costoso che ormai non solo i laboratori di università, centri di ricerca e industrie si stanno attrezzando per usarlo. In un recente articolo, la rivista scientifica “Nature” si sofferma sulla diffusione pervasiva della tecnica per modificare il genoma anche in contesti non accademici, come i gruppi di appassionati di biologia e delle scienze della vita. Persone non necessariamente formate in questo settore che si dedicano a esperimenti scientifici fai-da-te di ingegneria genetica. Si parla infatti di Do-It-Yourself-Biology (Diybio), biologia fai da te, nome coniato da uno dei primi collettivi, nato nell’area di Boston nel 2008, dove si trovano due tra le più innovative università al mondo, il Massachusetts Institute of Technology (Mit) e Harvard.
In poco tempo, sotto la direzione di una sorta di coordinamento virtuale tramite un sito e un blog in rete, sono nati numerosi hub anche fuori dagli Stati Uniti. Ogni gruppo locale si dedica a esperimenti diversi, spesso utilizzando solo genomi semplici e cellule batteriche, attrezzature che a volte derivano da svendite su eBay di laboratori in disuso e luoghi pubblici o condivisi come luoghi d’incontro.
Nei primi anni in cui il fenomeno era ancora poco diffuso e riconosciuto, cantine e garage privati erano i luoghi di incontro di amatori e curiosi di poter sperimentare con il materiale vivente, tanto che l’auto-definizione di garage scientists aveva subito destato interesse, ma anche sospetto. Fin dalla sua nascita la Diyibio ha infatti sollevato diverse preoccupazioni relative alla manipolazione di materia biologica da parte di persone non esperte, come il rilascio accidentale o incontrollato di materiale potenzialmente nocivo per ambiente, animali ed esseri umani. La biosicurezza è però un argomento fortemente presidiato dalla comunità dei biotech amatoriali: sul sito è prevista una larga sezione sui comportamenti da adottare e c’è anche la possibilità di consultare un esperto su problematiche particolari. Inoltre il report Myths & Realities of the Diybio Movement, pubblicato a fine 2013 dal Woodrow Wilson International Center for Scholars di Washington, ha dimostrato che la maggior parte dei partecipanti spesso sono studenti universitari o ricercatori in altre discipline, oppure biotecnologi, con una certa dimestichezza con le regole della ricerca e della biosicurezza.
Ricadono nel caso paradigmatico dei biotecnologi che popolano i community lab anche i membri dell’associazione trentina Open Wet Lab, ospitata dal Muse di Trento, uno dei due soli hub italiani. Sono infatti tutti giovani studenti e ricercatori in biotecnologie, tra i 20 e i 26 anni, «con la voglia di raccontare la passione per la scienza attraverso esperimenti in cui il pubblico, di ogni età, è il protagonista», racconta il team di Trento a pagina99. Per ora per loro non c’è possibilità di imbarcarsi in esperimenti che prevedano l’uso del genome editing, «perché richiede un continuo monitoraggio delle cellule modificate nel loro Dna», che oggi il gruppo trentino non può gestire in termini di tempo, spiegano all’Open Wet Lab.
Il timore più grande legato alle biotecnologie fai da te è però la creazione ad hoc di armi biologiche a scopo terroristico. Dopo anni in cui l’Fbi controllava assiduamente il movimento sul territorio statunitense, anche partecipando agli incontri locali, ora sembra che la stretta si sia allentata. «Ormai in Nord America il bioterrorismo non viene più citato quando si parla di Diybio. Sappiamo che si tratta di un falso problema per diversi motivi», puntualizza a pagina99 Alessandro Delfanti, assistant professor di Cultura e nuovi media presso l’Università di Toronto e autore del libro Biohacker. Scienza aperta e società dell’informazione (Eleuthera Edizioni). «Primo, questi gruppi sono interessati a problemi come produrre funghi commestibili, testare il proprio Dna, o effettuare modificazioni genetiche a scopo ludico o commerciale. Secondo, lavorano in maniera assolutamente trasparente, sia perché operano in laboratori aperti a tutti e solitamente in open source. Chiunque può vedere quello che stanno facendo. Si tratta quindi di gruppi che si preoccupano di rendere la biologia più aperta e partecipata».
Proprio questo è uno degli scopi dell’altro gruppo italiano affiliato alla casa madre americana, i BeinTo. Nati da un’idea durante un workshop sulle biotecnologie nel FabLab di Torino, che ancora li ospita, i BeinTo per ora puntano ad auto-produrre attrezzatura di laboratorio open source che poi, in una seconda fase, possa essere usata nei veri e propri esperimenti “wet”, quelli in cui si lavora con Dna e materiale biologico. «Complice l’ambiente in cui siamo nati, tra i maker, puntiamo innanzitutto alla produzione di macchinari low cost che noi e altri gruppi Diybio possiamo usare», ci spiega Irio Lavagno, informatico elettronico, e ora biotecnologo fai-da-te a Torino. «Abbiamo già prodotto un’attrezzatura per lavorare coi batteri, disponibile in open source. Il prossimo obiettivo è realizzare un microscopio», continua Lavagno. La filosofia di apertura e democratizzazione della scienza è uno dei caratteri salienti della Diybio, tanto che spesso gli attivisti – tra cui due gruppi italiani nei loro siti e pagine Facebook – si auto-definiscono anche biohacker. «Non è un caso», conclude Delfanti, «questi gruppi sono affascinati dalla storia delle comunità hacker e spesso c’è un legame culturale diretto. Si tratta dello stesso sogno, quello di una tecnologia personale e non sottomessa al controllo di grandi aziende o istituzioni. Oggi alcuni gruppi di hacker, come i militanti di Anonymous, dimostrano che la rete fornisce agli outsider un potere enorme di intervento all’interno delle nostre società: i biohacker vorrebbero che lo stesso fosse possibile per le tecnologie legate alla vita».


Pagina 99, 19 dicembre 2015

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