23.1.16

Oscar Wilde. Un esteta che odiava il capitale (Enrico Terrinoni)

«Il socialismo, il comunismo, o comunque vogliate chiamarli, nel convertire la proprietà privata in pubblica ricchezza, e sostituendo la competizione con la cooperazione, restituiranno alla società la sua giusta condizione di organismo del tutto sano, e assicureranno il benessere materiale di ciascun membro della comunità». Sembrano parole di un militante d’altri tempi, e lo sono, ma non appartengono a un personaggio che siamo soliti definire «di sinistra». Proseguendo nella lettura, ci imbattiamo in considerazioni altre: «perché si arrivi a un’esistenza sviluppata al suo massimo grado di perfezione, c’è bisogno di qualcos’altro. C’è bisogno di individualismo». È questo, scopriamo, un individualismo nuovo, un ritorno a un umanesimo libero dalle catene del capitale, un individualismo socialista, se l’espressione non suonasse come un ossimoro o un paradosso.
A profetizzare tutto ciò è proprio il padre dei paradossi: l’irlandese Oscar Fingal O’Flaherty Wills Wilde, che il 16 ottobre compirebbe il suo cento sessantunesimo compleanno. Il «vero individualismo» di cui parla Wilde nel suo saggio del 1891, dal titolo L’animo dell’uomo sotto il socialismo – saggio che oltre ad essere incluso in innumerevoli antologie, oggi trova spazio persino nella preziosa «enciclopedia» marxista online (www.marxist.org) – è appunto libero di quella proprietà privata colpevole di aver «impedito a una parte della comunità di essere individualista, affamandola, e a un’altra, dirigendola sulla cattiva strada». Che è poi la strada, mortifera per Wilde, dell’accumulo. Riflessioni affini a quelle di un altro intellettuale di cento anni dopo, questa volta sì un marxista, Terry Eagleton, il quale, parlando con la sua proverbiale schiettezza di una «ossessione per l’accumulo», collega la cultura del capitalismo a una sorta di patologia che allontana l’uomo dalla sua natura di essere relazionale e solidale.

Non solo dandy
La trita vulgata di tanta critica più attenta alla forma che alla sostanza, ci ha consegnato la figura di un Wilde raffinato esteta, lontano dalle bassezze della vita quotidiana e sempre tendente alla pura bellezza. Per fare della propria vita un’opera d’arte. Leggendone però l’opera nella sua interezza – dalle prime prove poetiche alle lettere sul sistema carcerario di cui era caduto vittima, dalle commedie brillanti dove sono i cinici ad affascinare per la loro intelligenza, alla Ballata dal carcere di Reading e al De Profundis – ci si accorge che il suo interesse per il miglioramento della condizione umana fosse tutt’altro che passeggero.
D’altro canto, è in virtù di queste ambivalenze che Wilde non sembra passare mai di moda. Lo dimostra un fiorire incessante di studi, all’estero, e anche in Italia, dove i suoi scritti sono continuamente riproposti e anche ritradotti. Solo un anno fa usciva per il Saggiatore l’epistolario completo: una sua lettura — anche affrettata — non può non far risaltare l’afflato umanitario e l’attenzione verso le cause degli ultimi («per quanto spaventosi siano i risultati del sistema carcerario… tuttavia non c’è tra i suoi scopi quello di distruggere l’umana ragione…»).
Viene pubblicata in questi giorni da Marsilio un’ottima edizione della sua prima commedia, scritta un anno dopo il saggio sul socialismo. È la commedia che lo portò al successo e lo proiettò, lui irlandese e figlio di una fervente patriota nazionalista, alla ribalta dei palcoscenici e dell’alta società inglese: Il ventaglio di Lady Windermere (a cura di Paolo Amalfitano, pp. 277, euro 18). Si situa sul solco del cosiddetto «teatro della restaurazione» che, dopo la caduta di Cromwell, vide sulle scene londinesi un ritorno del mondano, talvolta frivolo, ma sempre brillante – in reazione al precedente oscurantismo puritano arrivato nel 1642 alla chiusura dei teatri e alla messa al bando dell’intrattenimento.
La commedia di Wilde gioca con sospetti di tradimento, segreti oscuri da non rivelare, amori impossibili, e reputazioni da salvare. Il tutto condito dalla efficace velocità di battute memorabili, e di una macchina teatrale dai tempi e dal ritmo assolutamente perfetti. Per i pubblici di allora e per quelli di oggi.
Sul palcoscenico, gli attori di Wilde sembrano muoversi con la leggerezza di folletti shakespeariani, ed è tramite questa levità che egli affronta rapporti sociali complessi: matrimoniali, extraconiugali, ma anche generazionali. Come il rapporto madre-figlio, ad esempio, nella complicità originaria del legame nascosto tra Lord Windermere e Mrs Erlynne, e in quello conseguente, di mutua segretezza, tra quest’ultima e Lady Windermere.
A ben vedere, è la società inglese, per Wilde, a essere un palcoscenico, esattamente come per Shakespeare, che però ne ampliava i confini, nel suo Globe, per finire ad abbracciare il mondo. L’Inghilterra di Wilde è il paese visto da un quasi immigrato, da un esule, forse. All’arcinota vicinanza della madre, Lady Speranza, alla causa dell’indipendentismo irlandese ma anche al femminismo, si affianca, per completare il quadretto di una famiglia assolutamente «non inglese» e non conformista, l’impegno del padre, Sir William, nei confronti della preservazione del patrimonio culturale dell’Irlanda rurale. Era un patrimonio fatto di superstizioni e leggende, e minacciato dal velocissimo declino, nell’ottocento, della lingua in cui veniva articolato, l’irlandese appunto.
Il retaggio familiare di Wilde, assieme al suo interessamento per le sorti dell’uomo rimasto in balìa di forze, come quelle del capitale o dell’impero, che ne minano l’autentico sviluppo, permette di leggere le sue commedie da angolazioni ironiche, distaccate, mai complici. E se nel saggio sul socialismo egli si schierava in difesa di una sorta di «umanesimo individuale» capace di comporre il reticolo sociale come una comunità di animi naturalmente solidali, così nelle commedie dipinge la propria posizione, quella dell’artista, in contrasto con i banali e disumanizzanti rapporti di potere, tipici di una certa società bene dell’Inghilterra.

Dalle risate al dramma
È una critica, la sua, che poteva soltanto provenire da un outsider. Il critico Declan Kiberd ricorda come, alla stregua dei filí (i poeti ereditari della tradizione celtica irlandese) Oscar Wilde «iniziò sin da subito a denunciare un’aristocrazia pusillanime non più interessata a difendere gli spazi dell’arte».
Questo perché gli spazi dell’arte, anche attraverso la risata, possono e devono aprire una riflessione sull’umanità. Devono permetterci, dal fango, di guardare le stelle.
In quest’ottica, il frivolo ventaglio della commedia – quasi non notato, all’inizio, dalla sua proprietaria, salvo poi rivelarsi la firma di un possibile atto di adulterio – diviene un vero e proprio specchio posto davanti agli occhi divertiti di un pubblico inglese, che ride alle sue commedie ma solo per farsi beffe della propria comunità. E c’è da immaginarsi che Wilde ridesse ancor di più, dietro le quinte o nei gentleman’s club che ospitavano le altre sue famose tirate teatrali. Perché, come s’è detto, per lo scrittore la vita era un palcoscenico: un palcoscenico da cui, e di cui ridere.
A un certo punto, l’irlandese Oscar Wilde, non rise più, in quell’Inghilterra che con tanto ardore prima l’aveva elogiato e poi portato alla gogna. Le vicende dei processi per diffamazione e omosessualità sono note, come è nota la storia dei lavori forzati a cui fu condannato, e poi l’esilio, questa volta non più privilegiato. Un esilio vero, che tramutò Wilde improvvisamente in un reietto cittadino del mondo.
Prima Napoli, poi Parigi, alla ricerca di una quadra. Ma i fasti di un tempo lasciarono gradualmente il campo all’indigenza e alla disperazione. I suoi ultimi giorni si persero freneticamente alla ricerca di un equilibrio oramai scomparso, tra conti che non tornavano più e un senso della vita smarrito. Abbandonò il palcoscenico dell’esistenza nella solitudine, il 16 novembre del 1900. E lo fece in uno squallido albergo parigino, alla fine di una commedia, la vita, che si era trasformata in tragedia.


“il manifesto”, 16.10.2015

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