5.2.16

Le «caste» da abbattere e quelle protette (Alberto Burgio)

Un articolo vecchio, un “promemoria” tuttora utile. (S.L.L.)

Dagli alla casta! Quanti titoli cubitali, quante trasmissioni in prima serata, quante ristampe ad alta tiratura non ha fruttato questo slogan moralizzatore. È stato ed è un ingrediente della crisi della politica. La quale, intendiamoci, la rabbia collettiva se la merita tutta. Sarà anche vero che la crociata anti-casta giova all’antipolitica, ma l’antipolitica è innanzitutto figlia dei vizi della politica. Politici incapaci ma onesti, o disonesti ma capaci, sarebbero già difficili da sopportare: il mix di incapacità e immoralità, riprovevole sempre, nella sfera pubblica è semplicemente intollerabile.
Insomma, la campagna ha un fondamento, come dimostra il fatto che in oltre quattro anni (il fortunato saggio di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella è del 2007) la situazione sia peggiorata sotto ogni punto di vista (soldi e qualità della «classe dirigente»). Ma questa è solo una parte del problema. Ce ne sono altre due sulle quali curiosamente si sorvola.
Il fatto che una denuncia sia fondata non dice ancora nulla sulle sue finalità né dimostra che essa sia svolta correttamente, in modo da colpire tutti i bersagli (o perlomeno i principali) contro cui dovrebbe rivolgersi. A Rizzo e Stella e alla pletora dei loro emuli viene spesso rimproverato di prendersela col parlamento allo scopo di favorire l’avvento di un sistema presidenzialistico. L’odierna campagna contro la casta dei parlamentari sarebbe la replica di quella che vent’anni fa segnò la fine della Prima repubblica sotto lo tsunami di Tangentopoli. È un processo alle intenzioni? Forse. Sta di fatto che l’ossessione per il deputato corrotto e per il senatore cleptomane è sospetta in un Paese in cui i veri stipendi (e vitalizi e buonuscite) d’oro finiscono in altre tasche, quelle - per rimanere nel pubblico - di banchieri e alte gerarchie militari, di diplomatici e alti magistrati, e soprattutto quelle di dirigenti e amministratori di aziende statali e partecipate. Il caso di Giancarlo Cimoli è paradigmatico e tutt’altro che unico. Ha scassato ferrovie e linee aeree guadagnando 3 milioni di euro l’anno e si è portato a casa 11 milioni di liquidazione. Ma chi se ne ricorda più? E per quanto sentiremo parlare ancora dei coniugi Guarguaglini-Grossi e della buonuscita milionaria di lui, sempreché la magistratura non ci metta prima una pezza?
Si ha l’impressione che ci siano caste e caste, alcune da esporre al pubblico ludibrio, altre da proteggere; e che nell’un caso (il parlamento) si tratti di affossare un sistema, nell’altro (gli oligarchi) l’obiettivo sia, al contrario, santificare il principio «meritocratico» per cui è sacrosanto strapagare l’élite, assunto, naturalmente, che sia tale. Del resto, non è forse questo il modello vincente, il credo, moralizzatore a senso unico, che da vent’anni ci viene dispensato dai sedicenti ottimati? Non è questo l’abc dell’azionismo tecnocratico dei fautori della «democrazia senza partiti», degli eredi del dispotismo illuminato che, ovviamente, rivendicano per sé la potestà di giudicare dei Lumi propri e altrui?
Ma le omissioni, nella crociata an-ticasta, non riguardano soltanto gli alti papaveri delle amministrazioni pubbliche. Ce n’è un’altra strutturale, ben più significativa. La denuncia delle degenerazioni castali risparmia in blocco il settore privato, dove, pure, privilegi, iniquità e sproporzione retributiva non sono certo meno evidenti. Pensiamo al mondo dello spettacolo e dello sport, alle libere professioni e alle semilibere (a cominciare da notai e farmacisti), ai manager di banche e industrie. E pensiamo ai giornalisti. Il loro stipendio medio non è stratosferico, a parte il fatto che le redazioni pullulano di precari sottopagati. Ma poi ci sono le primedonne, quelli che riescono a sfondare nello show business, e allora altro che diaria e vitalizio, altro che dolce vita da peone. Solo che di costoro chi potrebbe occuparsi? Si è mai visto un bambino correre dalla mamma col barattolo della marmellata in cui ha appena affondato le manine?
Ma - si dirà - che c’entra il privato col pubblico? Mica i giornalisti o i notai li paga lo Stato, mica calciatori e capitani d’industria pesano sull’erario. Questo, in effetti, viene puntualmente risposto, con una insofferenza sospetta, ogni qualvolta si osi chiedere conto al Catone di turno. Del pubblico si può parlare, perché riguarda tutti. Del privato no, perché ciascuno a casa propria fa quello che gli pare. Peccato che questo discorso, in apparenza incontestabile, faccia acqua da tutte le parti.
Intanto l’aspirazione a vivere in una società meno iniqua coinvolge tutti. Che l’amministratore della Fiat guadagni quanto seimila e cinquecento operai è di per sé una vergogna indipendentemente dalla fonte del suo reddito. Poi si dà il caso che il mercato sia un tutt’uno, un sistema di vasi comunicanti, altrimenti non si potrebbe nemmeno parlare del Pii di un Paese. Questo significa che se qualcuno guadagna cifre astronomiche, la cosa non è priva di connessioni col fatto che tanti altri fanno la fame o quasi. Una politica dei redditi equa e non generatrice d’inflazione deve regolare l’intera economia nazionale.
Soprattutto non è vero che a ripartire (in modo più o meno iniquo) la torta del reddito nazionale sia il dio mercato, come assicura la teologia dominante. Prezzi e valori (non solo delle merci, anche delle funzioni sociali) sono pesantemente condizionati dalla politica, per cui la pretesa che il privato si autoregoli è alquanto inconsistente. Del resto, che cos’è oggi, in un Paese come l’Italia il «capitale privato»? Quanti soldi pubblici finiscono sistematicamente nelle tasche degli imprenditori privati (compresi gli editori dei grandi giornali, che peraltro hanno tutti anche svariate attività d’altro genere) sotto forma di finanziamenti diretti o indiretti (privilegi e scappatoie fiscali, mancata regolamentazione delle attività finanziarie e regolazione favorevole del mercato del lavoro)? Come diceva un antico maestro oggi pressoché dimenticato, l’intervento statale è «una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva», e lo Stato è esso stesso il «mercato determinato» non essendo altro, a ben vedere, che l’«espressione politico-giuridica del fatto per cui una determinata merce (il lavoro) è preliminarmente deprezzata, è messa in condizioni di inferiorità competitiva paga per tutto il sistema determinato». Concetti diffìcili, espressi in forme desuete, e soprattutto tesi controconente, diametralmente opposte al mainstream. Ma non c’è miglior commento alle manovre compulsive dei nostri governi e miglior sintesi della ratio politica che le ispira.
La verità è che la rappresentazione del settore pubblico e di quello privato come compartimenti stagni è un mito che fonda un tabù. Ci si rifiuta stizzosamente di discuterne non solo perché è un cardine dell’organizzazione sociale esistente, ma anche perché permette al privato di arrogarsi il confortevole molo del giudice moralizzatore e di lucrare su di esso senza pagare pegno. È un dispositivo perfetto, benché riposi su una mistificazione. O forse proprio per questo. In fondo capita spesso che alla base del moralismo stia la prepotenza.


“il manifesto”, 24 dicembre 2011

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