6.2.16

Paolo di Tarso o dell’intransigenza della fede (Alessandro Esposito)

Alessandro Esposito, pastore valdese in Argentina, nel suo blog su "Micromega" ha pubblicato questa riflessione, secondo me da leggere. (S.L.L.)
Caravaggio - La conversione di San Paolo
L’apostolo Paolo, è risaputo, era un uomo dal carattere forte e spigoloso, che gli ha procurato, nel tempo, simpatie genuine ed antipatie viscerali. È chiaro che con questi sentimenti spesso superficiali non si fa esegesi: bisogna cercare di andare al di là di queste prime sensazioni, senza ignorarle, ma dimostrandosi disposti a ridiscuterle e, prima ancora, ad analizzarne, per quanto possibile, le cause. La mia distanza personale dall’elaborazione teologica dell’apostolo Paolo è profonda ed intendo suffragarla mediante una breve e per ovvie ragioni incompleta analisi di alcuni aspetti essenziali del suo profilo psicologico, entro i limiti (notevoli) in cui è possibile tratteggiarlo a partire dal suo epistolario. Prima di delineare tale profilo, desidero svolgere due riflessioni preliminari, determinanti al fine di chiarire quale sia il modo che ritengo più corretto per accostarsi alle parole dell’apostolo, spesso gravate dalla pesante ipoteca di secoli di tradizione e traduzione dogmatica, specie protestante.
1. Anzitutto, dell’apostolo Paolo ci sono giunte soltanto alcune lettere indirizzate alle prime comunità cristiane dell’area greca, che allora comprendeva anche la costa egea dell’attuale Turchia. In queste epistole Paolo polemizza spesso con qualcuno di cui non condivide la predicazione e la teologia che la sostanzia: per cui, sovente, il suo tono appare un po’ «sopra le righe». Oltretutto, fatto non trascurabile, noi non conosciamo se non attraverso il resoconto fornitoci dell’apostolo le posizioni sostenute da quanti egli critica, spesso con asprezza: il che ci impedisce di avere un quadro preciso ed obiettivo della situazione da lui descritta in maniera inevitabilmente parziale, perché prospettica e figlia del coinvolgimento diretto.
2. In secondo luogo, le epistole paoline mettono in luce il fatto che l’apostolo visse, come è naturale che sia, diverse metamorfosi nella sua fede, la quale, non dovremmo mai dimenticarlo, è esperienza viva e dunque mutevole, non acquisizione di contenuti invariabili.
In tale evoluzione, un elemento rimane costante nell’elaborazione teologica svolta dall’apostolo: la lieta notizia, traduzione letterale del termine evangelo, è Gesù, la sua persona. In Paolo non troviamo mai l’annuncio di un Regno di pace e di giustizia, centrale nell’annuncio del profeta di Nazareth: in Paolo la buona novella è Gesù stesso. Questo aspetto innovativo e per molti aspetti nevralgico, è divenuto, prima in Paolo e poi nelle chiese (in particolare protestanti) univoco: non si annuncia più «Regno e la sua giustizia» (che secondo Gesù erano l’unica cosa da cercare, come ricorda Matteo nel «discorso della montagna» - 6:33 -), ma la persona di Gesù e la sua portata salvifica.
Paolo, interiormente rigenerato dall’esperienza dell’incontro con il risorto narrata nel celebre passo del libro degli Atti degli Apostoli (Atti 22: 6-10), ne farà comprensibilmente il centro del suo annuncio. Peccato che l’assolutizzazione del suo vissuto lo porterà a maturare una concezione della fede che a tratti, nelle sue lettere, si rivela estremamente rigida. Non di rado, infatti, Paolo demonizza i suoi avversari, scaglia contro di loro anatemi ed arriva persino a chiamarli «cani» (Filippesi 3:2).
Ecco perché, in ultima istanza, nutro il sospetto che l’apostolo, pur avendo abbandonato il giudaismo ortodosso più intransigente, ne ha mantenuto per molti versi la logica. In questo, credo, Paolo non ha fatto onestamente i conti con il proprio passato: ha creduto che la conversione sperimentata con ardore ed entusiasmo avesse debellato del tutto il suo vecchio io, la sua precedente identità. È un’idea ancora oggi assi diffusa negli ambienti fondamentalisti: la conversione consente di chiudere i conti con il proprio passato. Peccato, però, che sia del tutto illusorio credere che ciò che ha caratterizzato per anni la mia mentalità ed il mio agire si possa cancellare con un colpo di spugna. Ciò che sono stato per lungo tempo, difatti, non può scomparire come d’incanto. Paolo ha un passato da guardiano della fede, inflessibile d irreprensibile: parte di questo suo modo di credere e di pensare lo trasporterà, suo malgrado, in una fede nuova che veste abiti vecchi. Nuovo è il contenuto del suo annuncio, vecchi risultano i toni e le modalità attraverso cui l’apostolo lo incarna.
Paolo aveva interiorizzato una rigidità che manterrà invariata: la sua intransigenza, da convertito, è la stessa che caratterizzava la sua fede giudaica. E, come spesso accade, sarà proprio la sua antica appartenenza religiosa quella contro cui l’apostolo si scaglierà con maggiore veemenza.
L’apostolo crederà di trovarsi al di là di ciò che era stato: ma l’identità è un processo di anni, che finisce per contraddistinguerci senza che sia possibile lasciarla alle spalle con una svolta, per quanto radicale. Ecco perché, in definitiva, sono persuaso del fatto che il Paolo «trasformato» continui, per certi aspetti, ad essere estremamente simile al Paolo rigoroso e zelante nell’interpretazione legalistica del giudaismo.

Micromega, 2 febbraio 2016

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