2.3.16

Irlanda 1913. Un’epocale lotta di classe (Enrico Terrinoni)

Centenari. A Dublino il sindacalista Jim Larkin proclamò uno sciopero generale quando centinaia di lavoratori della Dublin United Tramways Company vennero licenziati. La città si paralizzò...
Il sindacalista Jim Larkin, detto il grande Larkin
Una vecchia ballata dublinese recita più o meno così: «Ricchi erano i padroni, a Dublino nel 1913, e i poveri schiavi / Le donne al lavoro, i figli affamati; ma poi venne Larkin… / La voce dei lavoratori, la voce della giustizia… / Li incitò alla rivolta e diede loro coraggio… / Per otto mesi abbiamo lottato e sofferto la fame / Siamo stati al suo fianco, nel bene e nel male, / ma senza nulla da mangiare, e tra il pianto dei bimbi, sono riusciti a spezzarci il cuore: era impossibile vincere». Corre quest’anno, e precisamente il 26 di agosto, il centenario dell’inizio del più grande sciopero, o meglio, della più grande serrata della storia d’Irlanda, il Dublin Lockout, che paralizzò le strade della capitale irlandese dall’agosto 2013 fino agli inizi del febbraio 2014.
Furono mesi di indicibile indigenza, di sofferenza e di morte per tantissimi componenti della working class di Dublino, assiepati in quei tenements o palazzoni ancora visibili nella parte nord del centro città: edifici georgiani un tempo abitati dalla media e alta borghesia, ma trasformati tra fine ottocento e gli inizi del novecento in dormitori urbani, in cui spesso famiglie intere vivevano a caro prezzo condividendo i servizi fatiscenti con le altre decine di inquilini dello stesso edificio.
Nella sorte particolare che hanno vissuto le rivisitazioni storiche in Irlanda, paradossalmente poco spazio è stato concesso a questo passaggio fondamentale, che segnò il futuro del paese. Ciò, forse, per via della prossimità con altri due eventi maggiormente impressi nell’immaginario collettivo: la prima guerra mondiale, che vide tanti irlandesi, mai perdonati, combattere tra le fila dell’esercito britannico, e la rivolta di Pasqua del 1916, a cui hanno partecipato i nazionalisti anti-britannici e i socialisti rivoluzionari. Eppure, l’ideologia che guidò la partecipazione di parti contrastanti del popolo irlandese ad entrambe le disperate imprese non potrebbe essere compresa in tutte le sue pieghe e contraddizioni senza una lettura critica del Lockout, delle sue motivazioni, e del riverberarsi della eco di quei mesi drammatici nell’imminente plasmarsi della nazione. Ripercorriamo, allora, quegli eventi.
Dublino, una delle capitali dell’impero britannico, non godeva di molte delle prerogative di una capitale. Non essendovi un governo nazionale, il capo di stato era il monarca inglese, il quale delegava i poteri ufficialmente al viceré, ma il potere operativo era affidato al Chief Secretary for Ireland, una sorta di ministro plenipotenziario che si occupava degli affari irlandesi nell’ambito delle dinamiche coloniali. Dublino era una città divisa tra una aristocrazia locale chiaramente filobritannica, una giovane borghesia di piccoli, medi e grandi commercianti e imprenditori, adeguatisi nella maggior parte dei casi allo status quo, e dunque integrati nelle dinamiche di scambio con la «madrepatria», ed infine un’ampia classe popolare, fatta di lavoratori sfruttati e di disoccupati, di famiglie numerosissime che vivevano molto al di sotto di quella che oggi chiameremmo la soglia minima di povertà.
La classe media, e ovviamente l’aristocrazia, non avevano la più pallida idea delle condizioni di vita in cui versava la classe lavoratrice di Dublino. Di 400.000 abitanti, quasi 90.000 risiedevano nei già citati tenements, e l’80% delle famiglie vivevano stipate in una sola stanza. Tra il 1913 e il 1914, una commissione d’inchiesta di nomina governativa fu istituita per studiare il problema delle condizioni di vita delle classi popolari. Nel rapporto del 1914 si legge dell’esistenza di molti tenements composti da «sette o otto stanze, ognuna destinata a una famiglia, che ospitano in totale tra le quaranta e le cinquanta persone». Un testimone interrogato dalla commissione raccontò d’aver visto in uno di quei palazzoni «una stanza di 3 metri quadrati, senza alcun mobilio, in cui una famiglia di 9 persone, tra cui 7 bambini, dormiva senza coperte per terra su un cumulo di paglia che non sarebbe bastato a un gatto». In questa zona, un tempo nobile, di Dublino la prostituzione e l’alcolismo erano la regola. Le drammatiche condizioni di vita, assieme a una disoccupazione massiccia (intorno al 20% nel 1911 tra la popolazione maschile) o nei casi più fortunati a impieghi saltuari, malpagati e soggetti a orari lavorativi oggi impensabili (fino a 70 ore a settimana), alla conseguente malnutrizione generalizzata e alla diffusione di malattie come la Tbc, il tifo, e la dissenteria, erano la causa di elevatissimi tassi di mortalità, anche tra gli adulti.
Queste erano le condizioni in cui operò il sindacalista Jim Larkin, la cui statua tuttora campeggia all’estremo nord di O’Connell street, la strada principale di Dublino, accanto ai quartieri popolari di cui divenne l’indiscusso eroe. Il suo carattere indomito è colto benissimo dal recente graphic novel Big Jim. Jim Larkin and the 1913 Lockout (O’ Brien Press, pp. 80, euro 12.99). Ma Larkin operava anche in una situazione politica del tutto peculiare, in cui un forte partito politico fautore della legge di autogoverno (Home Rule) aveva appena iniziato a perdere consenso a favore del neonato Sinn Féin, fatto di nazionalisti e repubblicani che leggevano la situazione contemporanea tutta in chiave anti-inglese. A questo partito si affiancava idealmente un movimento di rinascita della cultura gaelica, portato avanti da un gran numero di associazioni operanti in vari settori, dallo sport alla lingua, dal teatro alla letteratura. Tuttavia, l’operato di Larkin e la serrata del 1913 vanno inserite soprattutto nel contesto di un labour movement che prendeva piede a fatica in Irlanda, soprattutto per la mancata industrializzazione — con la sola eccezione del Nord.
La maggior parte dei sindacati di peso avevano base in Inghilterra, e riunivano per lo più lavoratori di singoli settori. Larkin apparteneva al sindacato dei portuali (il National Union of Dock Labourers) e da lì, accorpando i tanti lavoratori impiegati nella grande azienda privata dei trasporti cittadini (la Dublin United Tramways Company), ma aprendosi anche a tutti gli altri general labourers, fondò nel 1909 la Irish Transport and General Workers Union (Itgwu), il sindacato che diede l’impulso maggiore allo sciopero e la serrata. Il nemico naturale era ovviamente proprio l’azienda dei trasporti cittadini, capitanata dall’alter ego di Larkin, tale William Martin Murphy, proprietario anche del giornale The Irish Independent, dei magazzini Clery’s, e rappresentante di punta della federazione dei datori di lavoro di Dublino. Questi aveva dalla sua il supporto pressoché unanime della camera di commercio.
Murphy, ferocemente ostile ai metodi oltranzisti di Larkin, e soprattutto alla sua politica del cosiddetto sympathetic strike, ovvero dello sciopero di solidarietà, attuato da lavoratori appartenenti ad aziende non direttamente oggetto del contenzioso in atto, iniziò ad ostracizzare sistematicamente i membri del Itgwu, o a non considerarne l’assunzione. Il 21 agosto del 1913 centinaia di lavoratori della Dublin United Tramways Company ricevettero una lettera di licenziamento, per via della loro appartenenza al sindacato. E fu così che Larkin decise di indire uno sciopero generale per il 26 di agosto, giorno in cui si sarebbe svolto il famoso Dublin Horse Show. La scelta fu oculata. Alle 10 del mattino, senza preavviso alcuno, i tram di Dublino si fermarono, e la città fu bloccata. Altre categorie si unirono in segno di solidarietà.
Seguirono giorni di scontri e violenze, tra scioperanti e crumiri, e soprattutto tra membri del sindacato e polizia. Il 30 agosto ci scappò il morto, James Nolan. Un testimone, Stephen Gilligan, racconta che l’agente Bell, matricola 224C, continuò a picchiare Nolan col suo manganello, anche quando questi finì a terra. Il giorno dopo, gli scontri e le violenze della polizia furono tali da far ricordare quella domenica come uno dei primi Bloody Sunday della storia irlandese. La notte del 3 settembre, Murphy e altri 404 padroni prepararono un documento che, se firmato dai lavoratori, avrebbe permesso loro di essere riassunti. La condizione era di rinunciare per sempre all’appartenenza al sindacato. In pochissimi firmarono, e la serrata continuò.
Dall’Inghilterra giunsero, nei primi mesi, navi cariche di derrate di cibo da destinare agli scioperanti, inviate dal British Trade Union Congress, che tuttavia si rifiutò sempre di indire uno sciopero generale di solidarietà in Gran Bretagna, errore strategico che Larkin non perdonò mai. Invece, il consenso per gli scioperanti in Irlanda cresceva trasversalmente. George Russell, sodale di W.B. Yeats, indirizzò dalle colonne dei giornali queste parole agli intransigenti «padroni»: «forse l’avrete vinta, e con la vittoria vi guadagnerete la dannazione. Le persone la cui dignità di uomini avete piegato vi odieranno… I loro figli impareranno a maledirvi…». Dopo mesi di sofferenze, fame, e indigenza, gran parte dei lavoratori firmò il documento dei padroni, e gli fu permesso di tornare al lavoro.
Ma, come predetto da Russell, fu una vittoria di Pirro. Dopo pochi mesi, in molti si iscrissero di nuovo al sindacato che avevano dovuto abbandonare, e questa volta i padroni non ebbero il coraggio di affrontare una nuova serrata, poiché la prima era costata loro centinaia di migliaia di sterline in commerci mancati. Il senso di questo esempio epocale di lotta di classe è profeticamente colto dal monito dall’altro grande sindacalista irlandese, il padre della repubblica, James Connolly: «I padroni non sono riusciti a condurre i loro affari per via di tutti quegli uomini e quelle donne che sono rimasti fedeli al sindacato. I lavoratori non sono riusciti a spingere i padroni a riconoscere formalmente il sindacato e a preferire il lavoro organizzato. Delle conseguenze di questo pareggio, entrambe le fazioni portano le ferite. Quanto queste siano profonde, a nessuno è dato rivelare».


Alias domenica – il manifesto, 21 agosto 2013

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