9.3.16

Storia della Chiesa. Un paradiso (fiscale) sulla terra (Giacomo Todeschini)

Siena - Ospedale di Santa Maria della Scala, La facciata
«Quello che viene sottratto a Cristo, se lo prende il fisco» (Hoc tollit fiscus, quod non accipit Christus). Questa frase, attribuita ad Agostino di Ippona, e ampiamente citata dai teologi e giuristi medievali, per essere infine ripresa dal Decretum Gratiani, prima parte del codice di Diritto Canonico elaborato verso il 1140 a Bologna, può ben introdurre una riflessione sui rapporti che, sin dalle origini dell’Europa cristiana, la Chiesa intrattenne con lo Stato, inteso in questo caso come realtà fiscale. Agostino, del resto, in un suo Sermone (302, 5) pronunciato nei primi anni del quinto secolo, aveva fatto notare ai fedeli che «se il fisco si prende le tue ricchezze, te ne priva in questo mondo, mentre se è il Cristo a prendertele, te le conserva in cielo» (si tollat fiscus, te spoliat in hoc saeculo; si tollat Christus, tibi servat in caelo).
Questo discorso «agostiniano», nella rilettura fattane dal Diritto canonico, stabiliva in sostanza che la renitenza a pagare le decime alle chiese rafforzava le pretese fiscali dei poteri laici che impoverivano i cristiani, laddove invece il pagamento fiscale fatto alle chiese era ripagato dalla promessa di una Salvezza futura, era insomma una forma di investimento fruttifero.

«Patrimonia pauperum»
La Chiesa e il potere dei sovrani venivano, in definitiva, contrapposti a partire dal fatto che tanto l’una quanto gli altri erano in diritto di riscuotere pagamenti fiscali. La resistenza, eventuale, dei fedeli a pagare quanto dovevano alle chiese, si risolveva – osserva dunque la tradizione canonistica – in un guadagno per i poteri sovrani laici in quanto esattori di imposte e in una perdita secca (di denaro e di Salvezza) per i fedeli. Questa contrapposizione, e, si potrebbe dire, competizione fiscale, di antica origine, era fondata in primissimo luogo sul riconoscimento da parte degli imperatori cristiani, dopo il 380, anno della definizione del Cristianesimo come unica religione ufficiale dell’Impero romano (per il tramite dell’Editto di Tessalonica), della natura pubblica dei beni delle chiese, dunque della realtà economica ecclesiastica come realtà analoga a quella imperiale.
Da quel momento, ma con una forte sottolineatura avvenuta in ambiente carolingio (almeno dal 789), il patrimonio delle chiese (res ecclesiarum) sarà riconosciuto dai re e dagli imperatori cristiani d’Occidente come di rilevanza pubblica; il diritto di riscuotere le decime ed eventuali altre forme di prelievo fiscale da parte delle chiese poggerà concretamente su questo riconoscimento, tipico della storia europea, e sarà quindi alla base della rivendicazione fiscale codificata poi dal Diritto canonico nel dodicesimo secolo, che in sostanza vedeva nella negazione dei diritti fiscali delle chiese, e della Chiesa, l’origine di un abusivo accrescimento delle entrate dei regni e degli Stati.
D’altra parte, sempre a partire dal più antico Diritto canonico, quello pre-grazianeo, i beni delle chiese, tanto fondiari e dunque generatori di rendite, quanto mobiliari, erano definiti «patrimonio dei poveri» (res ecclesiarum, patrimonia pauperum), essi cioè erano intesi come istituzionalmente affidati alle chiese perché si prendessero cura dei poveri: il diritto fiscale delle chiese si veniva dunque sommando a una definizione giuridica del loro potere economico come potere esercitato in rappresentanza di coloro che, in quanto «poveri» ossia socialmente impotenti, dovevano essere tutelati e sostentati.

Politiche assistenziali
Quando, dopo l’undicesimo secolo e la cosiddetta riforma o rivoluzione «gregoriana», il sistema europeo delle chiese si mutò nella Chiesa, si venne definendo il «primato romano» del Pontefice insediato sul trono di Pietro, e si cominciò ad affermare, dal pontificato di Alessandro terzo a quello di Bonifacio ottavo (dagli anni ’70 del secolo dodicesimo alla fine del secolo tredicesimo), la predominanza teocratica dell’autorità papale sui poteri sovrani contemporanei, il conflitto fiscale già precedentemente esistente si precisò ulteriormente in termini politici.
La dottrina canonica ed economica prodotta dall’universo intellettuale ecclesiastico dalla metà del Duecento riaffermò dunque con vigore le rivendicazioni fiscali della Chiesa, a questo punto, però, nettamente rafforzate dal fatto che, soprattutto in Italia, un’Italia priva di forme solide di sovranità nazionale a differenza di quanto avveniva altrove in Europa, la Chiesa in quanto sistema istituzionale, riassunto nella figura del Papa a Roma, aveva come sua caratteristica decisiva e indiscussa quella di gestire, oltre la vita spirituale dei fedeli, la vita economica di tutti i fedeli che componevano il vasto popolo dei «poveri», dei quasi poveri, dei poverissimi e degli impoveriti. Questa amministrazione delle povertà, radicata sia giuridicamente sia politicamente tanto nella tradizione canonica quanto in quella civilistica dei secoli dodicesimo e tredicesimo, ma determinata anche dalle specifiche politiche assistenziali delle città che delegavano alle istituzioni ecclesiastiche la cura dei «poveri», prendeva la forma che poi si mantenne per secoli della amministrazione diretta o della gestione condivisa con amministrazioni civiche, di enti pii di vario tipo, dagli ospedali alle case di accoglienza ai brefotrofi ai Monti di Pietà.

Poteri pubblici
Poiché i beni delle chiese erano per definizione «dei poveri» e gli ecclesiastici che amministravano questi beni erano, formalmente, sia per antico diritto sia per conseguenza dell’atteggiamento legislativo della maggior parte dei poteri laici, null’altro che gli amministratori di un patrimonio sostanzialmente pubblico, la Chiesa venne affermando sempre di più, in ambito amministrativo e in modo particolare in area italiana, la sua configurazione di potere pubblico.

Efficienza ospedaliera
Dal medioevo all’epoca moderna il conflitto fiscale ha quindi caratterizzato, per forza di cose, i rapporti fra Chiesa e Stati: sia perché la crescita dei poteri nazionali determinava da parte dei sovrani una nuova rivendicazione di controllo fiscale totale dei territori sui cui perduravano gli antichi diritti delle chiese, sia perché la Chiesa, dal canto suo, forte delle prerogative giuridiche che ne avevano definito la crescita politica, dichiarava a sua volta la prevalenza delle proprie prerogative fiscali, in se stesse tradizionalmente fondate sul carattere «pubblico» del suo ruolo economico nei contesti amministrativi degli Stati.
In particolare, la cura e la gestione del bisogno, l’amministrazione della miseria o della povertà, nelle loro molteplici forme sociali e antropologiche, ha contribuito a rafforzare il protagonismo economico delle chiese e della Chiesa in Occidente: tanto la sperequazione economica sempre più forte che ha accompagnato lo sviluppo politico europeo, quanto la poliedricità imprenditoriale degli enti ecclesiastici, già evidente, in Italia, nel carattere a un tempo assistenziale, bancario e fondiario di taluni grandi ospedali (da quello di Santa Maria della Scala a Siena a quello di Santo Spirito a Roma), hanno, nel tempo, prodotto sia una forza e un’efficienza economiche delle istituzioni ecclesiastiche di per sé notevolissime, sia una competenza a gestire il bisogno in termini caritativi, in quanto tale spesso sostitutiva di politiche statali del diritto e dell’equità.

Convergenze parallele
In Italia, il peso grandissimo di questa tradizione, giuridica e consuetudinaria, ha certamente favorito, unitamente al suo assestamento e alla sua legittimazione in termini concordatari (nel 1929 e nel 1984), il collocarsi parallelo della Chiesa allo Stato nelle questioni riguardanti la gestione delle emergenze economiche, ma anche di tutte le problematiche inerenti alla disuguaglianza sociale, ossia alla diminuzione o alla privazione dei diritti di cittadinanza derivate dalle più varie forme di disparità.
L’accettazione da parte dei rappresentanti dello Stato, di questo ruolo sostitutivo della Chiesa, ha implicato e continua a implicare un’ambiguità di fondo a proposito del dovere della Chiesa di assolvere a obblighi fiscali che lo Stato impone già con difficoltà in Italia, a molti soggetti privati, ma che, tanto più stenta a definire per un soggetto che, come la Chiesa, si presenta da sempre, in tutta la forza della sua presenza pubblica, come analogo allo Stato.


“il manifesto”, 28 dicembre 2011

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