16.5.16

Alle origini del Beat. Kerouac, Burroughs e gli ippopotami (Emanuele Trevi)

William S. Burroughs, a sinistra, e Jack Kerouac nel 1953
Tutto deve ancora accadere – nella vita e negli ambigui riflessi delle opere – quando William Burroughs e Jack Kerouac, nella primavera del 1945, portano a termine e tentano senza successo di pubblicare un romanzo intitolato E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche (trad. di Andrew Tanzi, Adelphi). Basta ricordare che Kerouac pubblicherà Sulla strada nel 1957, e il più anziano Burroughs Pasto nudo nel 1959. Tanto per rievocare al completo la Trinità Beat, si può aggiungere che Urlo di Allen Ginsberg è del 1956. Eppure, c’è ben poco in questo esperimento a quattro mani di imputabile al candore dell’apprendista stregone, e la NewYork che emerge dalle sue pagine è quanto di più lontano si potrebbe immaginare da una qualunque età dell’innocenza. Tutto al contrario, è alla severa musa dell’Esperienza che i due autori, alternandosi nella stesura dei capitoli, rendono omaggio. E al primo morso, la mela risulta già irrimediabilmente bacata.
Son tutti veri i fatti tragici che vengono raccontati, risalenti all’estate del 1944. Il torbido fatto di cronaca nera che Kerouac e Burroughs decisero di trasformare in romanzo aveva occupato per qualche settimana le pagine dei giornali, e le poche deformazioni inserite (il nome dell’assassino e della vittima, l’arma e il luogo del delitto...) ben difficilmente avrebbero fatto velo – nel caso di una pubblicazione – al riconoscimento dei fatti e delle circostanze evocati.
Lucien Carr, rampollo di una famiglia benestante del Sud, e David Eames Kammerer si erano conosciuti nel 1936 quando ancora abitavano a St.Louis, nel Missouri. Lucien, l’amato, aveva appena undici anni, mentre Kammerer ne aveva già venticinque. Come scrive, nella bella postfazione al romanzo, James Grauerholz, amico e collaboratore di Burroughs, «otto anni, cinque stati, quattro scuole private e due college più tardi, il rapporto si era fatto troppo intenso e le emozioni erano ormai troppo febbrili». Kammerer aveva assunto il ruolo dell’eterno innamorato, paziente e premuroso nonostante tutte le umiliazioni possibili. Carr, d’altra parte, intende scrollarsi di dosso quella passione che lo opprime. La notte del 14 agosto del 1944, i due passeggiano nel Riverside Park, completamente deserto. Lucien vorrebbe imbarcarsi su una nave mercantile, alla volta dell’Europa. All’ennesima scenata di gelosia di Kammerer, estrae il coltellino da boy scout e colpisce due volte l’amico al petto. Poi, credendolo morto, gli riempie le tasche di sassi e lo fa rotolare nelle acque dell’Hudson.
Non bisogna pensare a Burroughs e Kerouac come a due scrittori che, in cerca di un soggetto abbastanza «forte» da ispirarli e tenere desta l’attenzione dei lettori, frughino nei giornali alla ricerca della storia adatta. Nei fatti che raccontano, semmai, ci sono dentro fino al collo. Entrambi conoscevano bene sia Lucien che David. Prima di costituirsi, Lucien si era rivolto a Burroughs per un consiglio, e aveva passato l’ultimo giorno di libertà assieme a Kerouac, ubriacandosi e visitando il MoMa, dove aveva ammirato a lungo il ritratto di Cocteau dipinto da Modigliani. Questa intimità costò ai futuri scrittori un arresto e un rilascio su cauzione. Erano, insomma, ancora prima che narratori più o meno realistici, «testimoni informati sui fatti». Passata la bufera, inizieranno a scrivere trasformando quella che era stata un’imbarazzante posizione giuridica in un punto di vista letterario vero e proprio.
Il risultato ottenuto è efficacissimo, a partire dallo sdoppiamento della voce narrante. Ognuno dei due scrittori immagina un suo alter ego. Burroughs è Will Dennison, allampanato barista tossico impegnato in sordidi lavori per conto di un’agenzia di investigazioni private. Tra i due protagonisti della vicenda, le sue simpatie vanno alla futura vittima, che nel romanzo si chiama Ramsay Allen – «un omone imponente, brizzolato, sulla quarantina, alto e un po’ flaccido», perdutamente innamorato del suo assassino, che viene chiamato Phillip Tourian, «un diciassettenne mezzo turco e mezzo americano». Phillip, a sua volta, è più legato al secondo narratore, Mike Ryko, un marinaio in attesa di imbarco di origini francesi e finlandesi, trasparente controfigura di Kerouac.
Come si addice a ogni buona tragedia, anche questa, nel momento in cui si alza il sipario, sembra già stabilita da un fato ineluttabile. «Al è uno dei tipi più ganzi e simpatici che conosco», ci avverte Burroughs-Dennison nel primo capitolo, e «anche Phillip non è male. Ma quando sono insieme scatta qualcosa che le farebbe girare a qualunque». Non serve più di una manciata di giorni e di notti per arrivare alla catastrofe.
La New York del 1944 dipinta da Burroughs e Kerouac sembra un luogo dove è sempre notte, si è sempre ubriachi fradici o alle prese con i postumi dell’ultima sbronza, e ci si muove senza sosta, come le marionette di un balletto meccanico, da un bar all’altro. Il caldo contribuisce a rendere ancora più incerti i confini tra la realtà e il delirio. Tutti discutono di Yeats e di Rimbaud, tra i locali del Village e le camere d’affitto di Washington Square. A un certo punto, la radio trasmette la notizia di un incendio in un circo, o in uno zoo. Pare che gli ippopotami si siano lessati nelle loro vasche – e questa ulteriore scheggia di follia, non si sa se inventata o realmente ascoltata, ma degna di figurare in un’antologia surrealista, diventa come l’emblema di un tempo della vita, di un modo di esistere, di un sogno metropolitano sospeso tra l’incubo e la fantasmagoria.
Ogni cosa, nei fumi dell’alcol confusi a quelli (ancora più inebrianti) dei desideri senza oggetto, sembra alla portata di una spiegazione nuova e illuminante, ma questa spiegazione non è mai pienamente intellegibile, sfugge alla presa, si dilegua nell’ombra...
Confessato il delitto, Lucien Carr se la sarebbe cavata con due anni di riformatorio. Uscito di prigione, iniziò a lavorare come fattorino alla United Press International, e nel 1956 era già direttore del notiziario serale. Visse fino al 2005 sempre tentando, com’è comprensibile, di mettere a tacere quella vecchia storia che aveva così bruscamente terminato la sua gioventù. E fu così che, per rispetto del diretto interessato, il dattiloscritto degli Ippopotami rimase inedito fino al 2008. Ma quella vecchia storia avrebbe continuato a ossessionare un gran numero di scrittori, primo fra tutti Kerouac, che ci tornò sopra in La città e la metropoli, il primo libro pubblicato nel 1950, e ancora nel tardo bilancio sulla sua educazione avventurosa del 1967, Vanità di Duluoz. A leggerlo oggi, E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche risulterà ben altro che un reperto archeologico, buono a soddisfare la curiosità degli studiosi e dei biografi. Al contrario, quello che ci troviamo tra le mani è un esordio quasi privo di difetti. Non privo, però, di quel cinismo che è sempre necessario a trasformare un’esperienza in una forma.
Suona davvero profetico, a questo proposito, l’ironico ritratto che Kerouac-Ryko dedica al suo grande amico e complice. Burroughs-Dennison gli ricorda un cowboy. Ma non il cowboy in sella al suo cavallo e armato del suo Stetson color grigio perla. «Will è il tipo di cowboy», semmai, «che indossa un gilè semplice e un cappello più modesto, sempre seduto al tavolo del saloon, e che si dilegua pian piano con i soldi appena il buono e il cattivo aprono il fuoco». In fin dei conti, nulla di meglio può essere detto di uno scrittore – o nulla di peggio, se si preferisce.
E anche il più «sentimentale» Kerouac, mentre prende un po’ in giro il suo amico e maestro, sa bene che il succo di ogni apprendistato sta tutto lì, nel capire il momento in cui filarsela col bottino atteso con tanta pazienza, mentre i «buoni» e i «cattivi» cominciano a darsele di santa ragione.

Alias il manifesto 28 maggio 2011

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