16.5.16

Franca Valeri: «Io, Totò, Visconti». Intervista di Aldo Cazzullo

Franca Valeri, 96 anni a luglio, ha appena pubblicato da Einaudi La vacanza dei superstiti (e la chiamano vecchiaia). Un libro pieno di humour; altrimenti non sarebbe suo. Ma anche di affermazioni che lasciano poca speranza.

Signora Valeri, perché scrive che il Duemila è sterile?
«Perché le invenzioni non hanno più il fascino fiabesco di Edison, né l’alterigia di Marconi. La mia nipotina di 7 anni maneggia iPad e iPhone; io non riesco a scrivere un sms. Me l’hanno spiegato cento volte: niente. Non sono sciocca; è che sono nata troppo prima. Scrivere lettere era una gran scocciatura: i tabaccai avevano sempre finito i francobolli. Ma vuol mettere il fascino di una lettera?».

Però lei il telefonino ce l’ha.
«È utile. Ma lo si usa quasi solo per parlare, quasi mai per ascoltare. Una volta per definire un pazzoide dicevi: “Parla da solo”. Ora il pazzoide ha trovato un interlocutore».

Com’è la vita sulla soglia dei cent’anni?
«Sempre bella, se si ha la fortuna di star bene; e io sono fortunata. Ma non riesco più a leggere. Una ragazza ha fatto la tesi di laurea su di me: un tomo colossale. Non posso leggerlo. Ma come posso non leggere una tesi su di me?».

Anche Rita Levi Montalcini aveva questo problema. Lo risolse con una macchina speciale che ingrandiva le lettere.
«Eccola là. La uso anch’io. Ma con i libroni non funziona».

Suo padre era ebreo. Nel 1938 lei aveva 18 anni. Dovette lasciare la scuola?
«Mi ero premunita: ero rimasta a casa e feci due anni in uno. Ero al Parini. Per depistare diedi l’esame al Manzoni. Non se ne accorsero. L’Italia ha sempre avuto le sue inefficienze».

Poi arrivarono i tedeschi.
«Ci furono tanti italiani coraggiosi; e ci furono tanti vigliacchi. Mi salvò un coraggioso: un impiegato del Comune di Milano, che mi procurò una carta di identità falsa. Ho avuto un momento in cui io non ero io».

Dove si nascose?
«Dappertutto. In Brianza. Sopra Lecco. Poi a Milano, in via Mozart, in una casa bombardata. Sopra di noi viveva una ragazza, molto giovane e bella, che si era appena sposata. Un giorno rientrando vidi la porta socchiusa. D’istinto me ne andai. Dietro c’erano i tedeschi. Presero la sposina. Non è mai tornata».

Lei si sente ebrea?
«Sarei perfetta se fosse stata ebrea anche mia madre. Per i tedeschi bastava anche una zia; un padre era abbastanza. E quindi sì, mi sento ebrea. Cose tipo le leggi razziali rafforzano l’identità».

Lei scrive che non è importante ricordare la prima volta che si è fatto l’amore, ma l’ultima.
«In realtà non ricordo neanche la prima. Noi figli della guerra siamo arrivati tardi a tutto. Non abbiamo avuto una giovinezza. Poi mi sono sposata con Vittorio Caprioli».

Le propongo un gioco. Lei ha lavorato con tutti i grandi artisti del ’900. Io le dico un nome, lei mi risponde.
«Da chi cominciamo?».

Totò.
«Una persona molto malinconica. Sa quel luogo comune sui comici, che siano un po’ tristi? Ecco, per Totò era vero. Intelligentissimo. Con la fissa della nobiltà: si faceva chiamare principe. Insieme abbiamo fatto Totò a colori e Gli onorevoli. Nelle pause eravamo sempre in un angolo a parlare. Tutti si chiedevano: di cosa parleranno Totò e la Valeri?».

Di cosa parlavate?
«Di cani. Totò li adorava. Io qui in casa a Roma ne ho otto. Ho anche un canile».

Eduardo.
«Eduardo era un cane rognoso. Con me, però, sempre simpatico».

Strehler.
«Un genio. Aveva il tocco magico. Spettacoli come i suoi non si vedono più».

Fellini.
«Un altro genio; anche troppo. Non ho sempre stra-capito tutti i suoi film. La sua personalità però mi ha sempre stra-affascinato. Una sera ci siamo trovati a casa di Lattuada e mi hanno chiesto di inventarmi un personaggio. Improvvisai la coreografa ungherese. Fellini impazzì e la mise in Luci del varietà. Se ripenso a quel film mi accorgo che sono tutti morti. Io sono la superstite».

Sordi.
«Quanto ci siamo divertiti a girare Il vedovo!»

Indimenticabile l’epitaffio che lei dettò al Corriere: «Ciao Cretinetti. Franca Valeri, Milano».
«Con Alberto abbiamo fatto sette film. Durante la lavorazione eravamo amicissimi; il giorno dopo smettevamo di sentirci. Ma non era affatto avaro com’è stato descritto: era un generoso. Non ho mai dovuto aprire la borsetta, offriva sempre lui. Sbagliò a prendere una strada artistica diversa: ognuno deve fare quello per cui è nato. Sordi era nato 15 giorni prima di me. Quando compii ottant’anni mi telefonò: “Franca, ci siamo arrivati!”. Purtroppo morì poco dopo».

De Sica.
«Il migliore in assoluto. Fascinosissimo. Regista straordinario, attore straordinario. Sdoppiarsi era il suo destino: due personalità, due vite, due famiglie, due donne. Entrambe si erano imposte. Giuditta era già una grande attrice, credo lo abbia aiutato a crescere. Maria era irresistibile, tanto era bella.
De Sica sapeva cavare il meglio dagli attori. Anche Sophia Loren con lui recitò benissimo».

Altre volte recitò meno bene?
«Ma no, Sophia è molto dotata, e poi è simpatica con il suo côté napoletano».

Monicelli morì suicida, come il padre. Destino, anche per lui?
«Credo di sì. Conoscendo Mario si può capire il suo gesto. Era così ironico da essere contro tutti, anche contro se stesso».

Ma il destino esiste davvero? O ce lo costruiamo con le nostre mani?
«In gran parte è così. Ma tenendo conto delle cose che la natura ci ha dato. Il destino di Maria Callas era la tragedia greca».

Con la Callas eravate amiche?
«Molto. Adoro la lirica, da quando a sei anni mi portarono per la prima volta alla Scala. Maria era idolatrata: la voce di Dio. Ma come donna si è riconosciuta infelice, e purtroppo questa riflessione le ha accorciato la vita. Si è ritirata troppo presto. Certo, Onassis diede una grossa mano. Peccato, perché Pasolini stravedeva per lei. E anche Visconti, che ne fece una perfetta Anna Bolena».

Dove vedeva Visconti?
«A Ischia. Un giorno arrivò Von Karajan. Ecco, questa è la fortuna: vivere al tempo della Callas e di Von Karajan. Una sera, sempre a Ischia, andammo a sentire una cantante diciottenne di cui si diceva un gran bene. Era Mina».

Anche con Mina avete lavorato.
«Sì, molti sabato sera. Abbiamo avuto un bellissimo rapporto, venne da me in campagna il giorno del suo matrimonio con Pani. Poi anche Mina ha scelto di sparire».

Lei no.
«Ho grande successo con i giovani. Dicono pure che sono un’icona gay… ».

Si è fatta un’idea del motivo?
«No davvero. Ma quando ho portato Parigi o cara al teatro Valle pieno di ragazzi la sapevano tutti».

A Parigi lei inventò la Signorina Snob.
«Montanelli venne a trovarmi e mi convinse a farne un libro, illustrato da Colette Rosselli».

Un libro l’ha scritto anche insieme con Luciana Littizzetto.
«Non proprio insieme. In quel periodo non ci siamo mai viste. Io scrivevo, lei dettava a una giornalista. Stimo Luciana: è spiritosa, intelligente, e anche buona».

Sandra Mondaini?
«Eravamo amiche. Il marito, poi, era bravissimo».

Enzo Tortora?
«Mi propose una trasmissione molto divertente, in cui recitavo le fidanzate immaginarie di uomini famosi, da Andreotti a Mike Bongiorno. Quello che hanno fatto a Enzo Tortora è atroce. Ne morì».

Come trova la Milano di oggi?
«Amo Milano. È cambiata molto, ma la mia Milano, quella del Parco, del centro — sono nata in via Rovani —, è sempre la stessa: bellissima».

Chi voterebbe tra Parisi e Sala?
«Sala. Sono di centrosinistra. Non si cambiano ideali politici alla mia età».

Renzi come lo trova?
«Alterna cose molto intelligenti a cose molto stupide».

Ad esempio?
«A volte trova il discorso giusto: sulla cultura, sulle potenzialità del nostro Paese. Altre volte assume un tono esuberante e un po’ presuntuoso. Ha talento e straordinaria abilità, ma forse è troppo giovane per quel ruolo; e non posso perdonargli il modo in cui defenestrò Letta. Il rinnovamento generazionale fa bene all’Italia; ma guardi Napolitano, che raffinatezza politica e umana».

Ha paura della morte?
«Non si può non aver paura. Si può non pensarci».

Dopo ci sarà qualcosa?
«Penso di sì. Credo che Iago abbia torto, quando declama che la morte è il nulla. La sparizione è un grande mistero. Forse è come prima della nascita; in tal caso Iago avrebbe ragione. Ma mi pare impossibile. O forse mi piace pensare che sia impossibile».


Corriere della sera, 5 maggio 2016  

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