1.5.16

Gastronomia. La cassoeula rivoluzionaria del divin Marchesi (Alberto Capatti)

19 marzo 2016: compleanno, 86 anni, di Gualtiero Marchesi. Brindisi alla libreria Hoepli di Milano dove viene presentato l’ultimo volume – Opere, Works (Cinquesensi editore). Nel libro, una intervista a tre, con Aldo Colonetti e Gillo Dorfles e le foto di 134 piatti da lui creati, senza ricette, solo il titolo e la data in appendice. Uno sfarfallio di luci e colori che comincia con una citazione ovvia: riso, oro e zafferano del 1981. In quell’anno, aveva da poco aperto il suo ristorante in via Bonvesin de la Riva, a Milano, e quel piatto resterà un simbolo, mentre era stato creato in una città curiosa, guardinga e anche tonta (la frase più ovvia per dileggiare le sue porzioni: ghe denter nagot, c’è proprio poco da mangiare). Era già stellato Michelin, e riuniva intorno a sé una stampa sensibile, attenta. La accoglieva e la invitava a sedere a tavola con lo stesso sorriso di sempre, con il suo tono di voce pacato, e con una cassoeula destrutturata: una larga foglia di verza verde sbollentata, a coprire il piatto, qualche costina di maiale e un salamino da mordere.
La nouvelle cuisine era arrivata con lui e i nomi dei fratelli Troisgros di Roanne o di Alain Senderens, alla Porte de Versailles, erano appena sussurrati, perché l’Italia identificava la Francia con Parigi e se doveva scegliere nel corso degli anni Settanta un ristorante prenotava un tavolo alla Tour d’Argent, anatra alla “presse” e vista su Notre-Dame. La nouvelle cuisine era invece in pieno fermento e non era solo creatività, ma anche una scuola nella quale tutti gli insegnamenti alberghieri ereditati da Escoffier venivano criticamente esaminati e nuovi principi, dal mercato ai fornelli, guidavano cuoco e allievo. Da quel 1981, anno d’oro, Marchesi in Italia è il maestro e nelle sue cucine si impara un mestiere diverso, disciplinato dalla materia e dalla forma, da un gusto che occhieggia l’arte. I suoi allievi non erano dei marchesini, e i più intelligenti prendevano la propria strada, liberamente, autonomamente. Un esempio? Pietro Leemann, svizzero, che apre, nel 1989, il ristorante Joia a Milano con un ben preciso programma, ancor oggi attuato con successo: niente carni e cucina vegetariana.
Marchesi pubblica La mia nuova grande cucina italiana nel 1980 e continuerà ininterrottamente a farlo, con altri libri, per istruire non solo i futuri chef ma tutti i curiosi, uomini e donne, che dopo un pranzo nel suo ristorante, dopo un articolo letto in un giornale, sentono che quel modo leggero e colorato e pensieroso di cucinare, può cambiare la vita. Detta, fa scrivere, insegna e si racconta. Le sue vicissitudini imprenditoriali, l’abbandono di via Bonvesin de la Riva, l’apertura dell’Albereta, a Erbusco, e l’approdo in piazza della Scala nel Marchesino, non si riflettono né sul suo percorso intellettuale e culinario né sulla autorevolezza di una personalità che si è imposta applicando principi e regole della nuova scuola francese alla cucina italiana, approfondendola, con variazioni e sovversioni, felice talora di stupire con riso, oro e zafferano, ma cocciuto nello studiare e ristudiare la materia prima. Ne è un perfetto esempio il trancio di orata cotto a vapore che nel titolo in copertina del supplemento domenicale del Corriere della Sera 2015, diventa: la cucina della verità ovvero della forma e della materia. Pochi ammiccamenti alle libertà e semplificazioni della cucina di casa – intervistato da Aldo Colonetti che gli domanda “Gualtiero, tu a casa cucini?” risponde: “No, mai cucinato a casa. E la prima volta che ho fatto una sfida con mia moglie, ho perso … ” – concentrazione sul proprio oggetto, con le due parole chiave che gli frullano, materia e forma. Tutto questo non esclude una ricerca immaginaria, perfettamente illustrata dalle foto di Opere, Works. Il cibo, apparentemente più semplice, una dadolata di polenta e della fonduta, si manifesta per gradi, suscitando sorpresa alla lettura della carta nel suo ristorante, e stupore guardando il piatto quando la fonduta viene versata, e, libero da ogni contesto, dopo cena, usciti per strada, diventando fantasia o rimpianto. È una esperienza del 2008, uno strano passo indietro e avanti alla ricerca di quella semplicità che suscita meraviglia.
Il cuoco di professione, allievo o no, il giornalista, il gastronomo, il cliente e il semplice lettore hanno un rapporto diverso, personale, con i piatti e i libri di Gualtiero Marchesi. Se ne appropriano e li travasano nella propria memoria, ripetendone, concretamente o virtualmente, singoli aspetti, un sapore, un colore, o inghiottendone il nome. La cronologia, lo scarto temporale giocano un ruolo secondario in un repertorio autenticato dalla ripetizione e dalla sua diffusione a tal punto che oggi, un libro senza ricette, di sole fotografie, rappresenta la sua ennesima avventura. Ma un aspetto della personalità di Gualtiero Marchesi, sfugge alla banalizzazione del riso e dell’oro. La sua passione per la musica che gli fa titolare “adagio” e “vivace” due panini creati per McDonald’s – fischi e applausi a un “compositore” tanto spudorato non si sono ancora smorzati – la genia di figli e nipoti che hanno rifiutato la cucina per suonare uno strumento, il suo sguardo obliquo per l’arte contemporanea, e infine il gusto degli aforismi e delle massime, riscritte su foglietti, recitate con la semplicità di chi passa in cucina o vi esce per andare a presentare un libro. Niente televisione, solo cultura.


Pagina 99, 9 aprile 2016

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