25.5.16

Giorgio Amendola il comunista (Armando Cossutta)

Armando Cossutta e Giorgio Amendola a una manifestazione del Pci negli anni Settanta
Sono molto importanti le manifestazioni in atto nel Paese con le quali si vuole ricordare la figura di Giorgio Amendola, nel centesimo anniversario della sua nascita. Emerge giustamente il ruolo straordinario che egli ha avuto nelle vicende politiche della seconda metà del ’900 e che fa di lui uno dei protagonisti in assoluto della nascita e della costruzione della nostra «Repubblica democratica fondata sul lavoro». È bene illustrare agli italiani i suoi grandi meriti di organizzatore tenace dell’unità antifascista, di dirigente esemplare della Guerra di Liberazione, di parlamentare illustre, di uomo di Stato. Desidero soltanto esprimere qualche breve riflessione sulla sua personalità politica, vista dall’interno del Partito Comunista Italiano, di cui è stato uno dei massimi dirigenti.
Figlio di una famiglia importante della borghesia napoletana, cresciuto a contatto con alcune delle maggiori personalità della cultura liberale italiana ed europea, è divenuto comunista per una scelta forte, come si sa. Ed è stato comunista - voglio sottolineare - nell’unico modo razionale in cui si poteva e doveva esserlo in Italia. Non fu né un comunista di tipo socialdemocratico né di tipo liberalsocialista come molti hanno scritto. Era comunista.
Togliattiano senza mai proclamarlo, aveva con Togliatti la medesima formazione e cultura storicista; ed aveva ben chiara la stessa strategia. Non ebbe esitazioni, sin dall’inizio, finita la guerra, a schierarsi dalla sua parte nel sostenere la concezione stessa del partito, profondamente, totalmente nuova rispetto al passato: e si batté per un partito non di propaganda o di testimonianza ma per una organizzazione che fa politica, che la propone, che la costruisce. Ed anche per questo per un partito di vocazione naturalmente unitaria, di massa.
Il suo lavoro di tessitore di rapporti unitari, svolto in modo intenso, continuo con uomini della sinistra italiana lo ha portato a scontrarsi spesso contro resistenze ed incrostazioni settarie. Le combatteva a viso aperto, non curandosi delle etichette allora disdicevoli di "riformista", che gli venivano cucite addosso. Era unitario, non accomodante. All’esterno sapeva fronteggiare anche duramente gli avversari politici e all’interno del partito non cercava compromissioni per affermare le sue convinzioni. Il suo linguaggio era diretto ed esplicito, detestava le formulazioni fumose, involute.
Amendola è stato sempre uomo di partito. Sovente i suoi commentatori dimenticano che nel ’54, destituito Pietro Secchia, fu nominato per scelta di Togliatti responsabile della Commissione di organizzazione, che era fondamentale, la più importante di tutte nella vita del Pci. Da lì lavorò per il rinnovamento profondo del partito, per il rinnovamento politico sancito nell’ottavo congresso del 1956 e per quello organizzativo compiuto con il nono congresso del 1959. Contribuirà a fare emergere una generazione più giovane di dirigenti, più aperta alle nuove realtà sociali ed alle esigenze unitarie, e questo fu in non poche organizzazioni regionali impresa ardua (ne so qualcosa!), che richiese grande coraggio e forte determinazione. Erano le sue doti, erano suoi meriti. Riuscirà a far sostituire alla testa delle maggiori federazioni figure popolari, cariche di antichi meriti e di radicati consensi, con compagni trentenni, non ancora affermati ma futuri costruttori del grandissimo partito che divenne il Pci. Eravamo quasi tutti della stessissima, medesima età, 1924-1925-1926: Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, Alfredo Reichlin, Ugo Pecchioli, Fernando Di Giulio, Aldo Tortorella, e tanti altri in ogni parte d’Italia.
Togliattiano nel profondo non esitò a distinguersi (non certo a distaccarsi) dal segretario nazionale su questioni di grande rilevanza, a partire dal giudizio sull’Unione Sovietica. Le sue critiche erano rivolte a sollecitare una differenziazione più esplicita nei confronti dei dirigenti sovietici a cavallo tra il XX ed il XXII congresso del Pcus. Furono critiche pubbliche e di non poco peso, di cui Togliatti e tutto il partito dovettero tenere conto: riserve esplicite e rilevanti sui ritardi e sugli errori nella vita interna sovietica.
Eppure Amendola, in epoca successiva, si trovò solo a non condividere la condanna del Pci contro l’invasione dell’Afghanistan: egli fu l’unico nella Direzione del partito a votare contro la risoluzione. E non esitò a rinfacciare a me apertamente ed anche duramente di non avere condiviso il suo atteggiamento. «Mi meraviglio di te - mi disse - eppure dovresti ben sapere cosa significa strategicamente, nei rapporti internazionali, che cosa conta Kabul a cavallo come è fra tre continenti ed in una contesa che prefigura una disputa di portata mondiale. Non mi piace proprio nulla della vita interna dell’Unione Sovietica ma so che essa rappresenta un fondamentale deterrente nei confronti del dominio mondiale degli Stati Uniti».
E fu quasi solo negli ultimi anni della sua vita - ma giustamente profetico - nel sostenere l’esigenza oggettiva dell’unità delle forze della sinistra, l’unità fra comunisti, socialisti, socialdemocratici, oltre le antiche contrapposizioni, oltre le rispettive collocazioni, riconoscendo e superando autocriticamente i propri «fallimenti», come impietosamente egli li definiva.
Comunista anche in questo, perché non si è comunista - diceva - solo per sventolare un simbolo ed un nome ma si è comunista se si contribuisce a costruire l’unità delle forze in grado di agire con efficacia per fare avanzare i lavoratori e l’intera società in Italia ed in Europa verso il rinnovamento democratico ed il progresso sociale. Concetti, come si vede, di estrema attualità.


l’Unità 2 dicembre 2007

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