7.5.16

Il Don Chisciotte di Unamuno (Carmelo Samonà)

Miguel de Unamuno nel 1925
Un eroe romanzesco che si fa persona storica nella volontà di chi lo interpreta, e diventa protagonista di un nuovo libro, al di là - e talora anche a spese - del suo stesso autore; il nuovo autore che ne addita l'immagine esemplare interrogandone le finte azioni come se fossero veridiche, ardendo e macerandosi con lui come farebbe un sacerdote con l'oracolo, o piuttosto un discepolo dinanzi al verbo del mestro: così agli inizi del secolo Miguel de Unamuno, il maggior pensatore spagnolo contemporaneo, concepì la sua lettura del Don Chisciotte di Cervantes, insinuando una filosofia del mondo nella forma didascalica di un commento al romanzo capitolo per capitolo, un po' come l'Imitazione di Cristo coi versetti del Vangelo. Si tratta di un disegno felicemente anomalo, insieme puntiglioso e declamatorio, in cui il cavaliere errante assurge a eroe d'una perpetua ansia di immortalità; Sancio è il suo erede naturale e pragmatico; Cervantes il cantore, o il semplice scriba che ne tramanda le imprese con onesto zelo ma non senza a volte travisarle; Unamuno, infine, colui che è nato per capirlo e indicarne l'esempio in un'epoca di gretto materialismo e di illusoria razionalità. Ce n'è abbastanza perchè questo libro, che l'editore Rizzoli ripropone nella serie del "Ramo d'oro" (Miguel de Unamuno, Vita di Don Chisciotte e di Sancio, a cura di Carlo Bo, traduzione di Antonio Gasparetti, pagg. 382, lire 20.000) susciti ancora la curiosità, e persino un certo turbamento, nei lettori d'oggi.
Principale animatore di quel rinnovamento culturale che scuote la Spagna negli ultimi anni dell'Ottocento (in particolare dopo la perdita di Cuba, nel 1898) Unamuno si segnalò fin dagli esordi per l'attenzione che rivolse ai molteplici aspetti della traduzione ispanica e a quella che egli stesso chiamò la sua "malattia storica"; dando prove di quest'impegno anche al di là delle sue competenze ufficiali (dal 1891 insegnava letteratura greca all'università di Salamanca), in opere di critica letteraria, pedagogia, linguistica, storia politica, narrativa e poesia, e in veste di professore, di polemista militante, di romanziere, e per qualche tempo anche di socialista con romantiche aspirazioni umanitarie.
La scelta di Cervantes come oggetto di studio rientra a pieno titolo in questo moralismo senza residui. Ci troviamo dinanzi a una sfida intellettuale complessa, che ci disarma per il suo candore prima ancora di saggiarne lo spessore critico e l' esatta collocazione storica. Apriamo il libro, e sentiamo subito che è qualcosa che ha poco a che vedere col capolavoro secentesco come opera di narrazione, e molto, invece, con la ricerca di un valore etico globale - quell'ansia di immortalità, fulcro e sostanza del pensiero unamuniano - che trascende non solo la letteratura come categoria estetica ma la letterarietà della singola opera in quanto espressione di un individuo creatore.
Non ci si fermi all' apparente ovvietà dei riferimenti culturali. Il commento al Don Chisciotte appare nel 1905, quando è già in atto quella peculiare forma di esistenzialismo cristiano propria del "secondo" Unamuno, da cui trapelano con evidenza riflessi delle letture di Kierkegaard e Schopenauer e tracce ancora palpitanti della crisi spagnola del Novantotto e del suo fervore pessimistico. E tuttavia la forza del commento non sta nella coerenza delle idee che vi si elaborano, e meno ancora nell'obiettività dell' esegesi. Ciò che colpì i lettori di quegli anni, in epoca di revisione critica dei valori borghesi e del pensiero positivo, fu la solennità del monito ideologico che il maestro basco lanciava alla Spagna attraverso il mitico cavaliere dell'ideale: quella rilettura di Cervantes contre-lui-même, in una chiave spiritualistica e consolatoria, che era, in fondo, l'estremo punto d'arrivo del chisciottismo romantico. Oggi la possibilità di ricezione dell'opera si pone in termini diversi. Il suo idealismo esasperato può sembrarci anche patetico, gli schemi culturali di cui si nutre possono apparire ricoperti di una patina tardo-ottocentesca; ma ciò a cui non possiamo sottrarci (millanteremmo solo un' ipocrita distanza) è il fascino del paradosso che governa il libro: l'ipotesi estrema di una "finta interpretazione", che si fa verità - e così legittima se stessa - nel fuoco della passione pedagogica. Ci piace la scommessa, forse l'ironia, della menzogna letteraria perpetrata da Unamuno: quel ribaltamento di ruoli fra personaggio e autore - quasi un archetipo di fantasie borgesiane (ma quanto più sofferto e candidamente idealizzato!) - che ci viene imposto come un dato filologico mentre è l'esibizione del più puro arbitrio. E ci seduce la rotondità dello stile: quell'enfasi totale, ininterrotta, che pur di cogliere il suo fine ideale ignora discrezione, sussiego di dottrina ed economia di ponderate analisi, e conosce invece il furore iconoclasta, la morbidezza persuasiva, la febbre esclamativa e iperbolica di una predicazione intorno all'assoluto.
Non si tratta di una fantasia isolata, ma di un libro aperto, e apertamente provocatorio. E il discorso si allarga, è inevitabile, all' intera opera di Unamuno e al problema del suo significato attuale. C' è, in questo scrittore insieme fideista e scettico, una segreta vocazione eroica e sovversiva che torna ad inquietarci. Il fascino del suo pensiero non consiste nell'attendibilità delle costruzioni logiche, ma nella qualità del rischio che di volta in volta è disposto ad affrontare per difendere un' idea (o piuttosto per rappresentarla in immagini, o predicarla) anche a costo di sofferte ambiguità e di palesi contraddizioni. Lefficacia della sua parola è nella sfida morale, non nella persuasione ragionata; la metafora, spesso, nei suoi libri, sopravanza il pensiero o lo sostituisce. E si badi: nel disordine apparente, e nell' arco di più di mezzo secolo di contributi, c'è una sostanziale unità di intenti.
Il breviario chisciottesco non è che il punto d'avvio di una maturità complessa e in apparenza mutevole, eppure rivolta costantemente al medesimo oggetto: è un primo esempio vistoso di quel "desiderio vitale", di quel tenace amore per l'uomo e per la sua drammatica avventura terrena che alimenterà, in seguito, riflessioni più propriamente filosofiche, ma sempre aliene da ogni tentativo di approccio sistematico, come Il sentimento tragico della vita (1913) e Agonia del cristianesimo (1925).
Non è un caso che in Unamuno il trattato teorico abbia ceduto volentieri il passo alla divagazione saggistica, e quest'ultima alla poesia, e talora al romanzo e all'invenzione teatrale. Per lui lo svolgimento del pensiero (diremmo meglio il suo "credo" esistenziale) si esprime con uguale ardore nelle diverse forme letterarie; che va assumendo per lo più d'istinto, equamente distribuito e anzi dissipato e liberamente articolato in ciascuna di esse. Si pensi: l'esempio più toccante del suo antistoricismo - il concetto di "infrastoria" - è affidato a una metafora di grande intensità poetica (la descrizione delle profondità marine), e lo troviamo in un saggio giovanile intorno al "casticismo".
Un romanzo bislacco letterariamente, ma costruito con rabbiosa volontà metalinguistica (Niebla, 1914), approfondisce la dialettica fra personaggio e autore già insinuata nel commento al Don Chisciotte, anticipando in certo modo Pirandello, e offrendo alla cultura letteraria contemporanea un precoce esempio di ribaltamento (e di demolizione concettuale) della struttura romanzesca. E che dire della produzione in versi (una poesia ideologica, s' intende, dai modi tradizionali e riposati, eppure atipica, giustamente rivalutata oggi), in cui vi sono prove di religiosità e momenti di tensione metafisica non meno elaborati e ricchi di quelli che ci consegnano le prose d'argomento speculativo o critico?
Va detto che questo irriducibile "poeta delle idee" è anche uno degli ultimi esempi di totale amalgama fra lo scrittore e l' uomo che ci abbia offerto la cultura europea. La simpatia che gli accordiamo oggi va rivolta alle sue creazioni letterarie, perciò, quanto alle forme del suo impegno civile, che ha conosciuto incertezze nel senso strettamente politico, forse, ma è stato sempre tempestivo e franco nelle posizioni assunte. Unamuno fu anche l'intellettuale ribelle che venne confinato alle Canarie nel ' 23 (e poi andò esule in Francia) per la sua opposizione alla dittatura di Primo de Rivera. E fu il maestro di vita che nel ' 36, rettore all' Università di Salamanca, inaugurò l'anno accademico con una prolusione contro gli orrori della guerra civile, che era appena agli inizi; l'uomo integro e intero, che alla violenza dei franchisti presenti nell'aula - alcuni insorsero contro di lui gridando "viva la morte!" - seppe reagire con fermissime parole di condanna.
Quel discorso gli costò la sospensione dalla carica universitaria poche settimane prima della morte (sopravvenuta il 31 dicembre dello stesso anno); ma fu il suggello simbolico di tutta la sua vita, e divenne una lezione di libertà per coloro che di lì a poco, non soltanto in Spagna, si sarebbero impegnati nella lotta antifascista. Ecco, dunque, un modello di partecipazione intellettuale che ci fa riflettere al di là delle testimonianze letterarie che ha lasciato, e si presta a singolari recuperi, oggi, proprio in ragione delle sue ambivalenze. In anni come i nostri, di diffuso opportunismo e di lucide, astute programmazioni culturali, non sarà inutile considerare attentamente una figura come questa: una voce che è rimasta attiva essendo sempre spiazzata e quasi anacronistica rispetto alle novità ufficiali e alle attualità consacrate; una capacità di intervento che ha saputo essere incisiva rimanendo frammentaria e labile, disposta sempre a rivedere se stessa pur di non irrigidirsi, e ad affrontare smentite e posizioni estreme pur di conservarsi autentica.


"la Repubblica" 4 settembre 1984  

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