21.5.16

Magicamente. La New Age di medium e imbonitori (Clara Gallini))

Governato da un invisibile potere centrale, che si manifesta solo attraverso una voce terribile, il regno del Mago di Oz appare ai suoi visitatori assieme affascinante e tremendo. Ma l'eroina Dorothy, coi suoi tre pavidi compagni, vuole scoprire chi stia realmente dietro quella voce, e ci riuscirà. Il finale della storia lo ricorderete tutti: il mistero è svelato, la voce è riprodotta mediante un artificio tecnico, il potere magico è mera illusione, il presunto mago è nella realtà un ometto qualsiasi, tutto sommato ben contento di mettere fine al gioco, non prima però di essersi accomiatato dai visitatori consegnando a ciascuno di loro un «dono» speciale. Non un amuleto, ma un oggetto la cui utilità è, per così dire, di carattere etico: serve come ricordo dell'attraversamento del Regno di Oz e come strumento per costruire la propria autostima.
Prodotto nel 1939 per la regia di Victor Fleming, Il mago di Oz traduce il romanzo di Frank Baum Lyman, risalente al 1900, in un film che ne rispetta la trama e la morale. A essere messe in scena, per venire ridiscusse, sono le vecchie fiabe di magia, quel genere che è stato così mirabilmente identificato da Vladimir Propp nel suo Le radici storiche delle fiabe (che nel titolo originario specifica come fiabe di magia) e da lui interpretato come un genere narrativo che conserverebbe la memoria di antichi riti iniziatici. Queste fiabe hanno circolato oralmente nella nostra tradizione, per poi riversarsi in quelle versioni scritte, la cui memoria continua ad assolvere all'importante funzione di sollecitare creativamente il nostro mondo fantastico.
Sono racconti in cui i maghi, o i loro equivalenti femminili, le streghe, agiscono come potenti agenti di trasformazioni - nella materia, nelle persone - ma la loro forza è, per così dire, esterna ad essi e affidata, concentrata, in un oggetto: per questo la loro forza è anche fragilità, il loro potere può essere carpito, grazie al ricorso ad astuti stratagemmi o all'aiuto di un animale-guida. Il trionfo del debole sulle forze del male è sempre assicurato, e la ripetizione del racconto ne restituirà ogni volta l'efficacia.
La vicenda del Mago di Oz esordisce e si sviluppa proprio come una tradizionale fiaba di magia, e anche da questo trae la sua capacità di incidere in un universo fantastico che non ne avverte l'estraneità. Ma dalla fiaba di magia si distacca proprio nel suo finale: non c'è la vittoria dell'eroe sul mago, cui conseguono l'acquisizione di un oggetto carico di poteri e quindi le nozze con la figlia del re. La magia è stata attraversata e compresa nella sua fallacia. Lo stesso potere politico di un piccolo despota è stato smantellato. L'eroina è una bambina che transita verso la tranquillità degli orizzonti familiari riconquistati.
Ogni fiaba finisce con una morale. Nel finale del film, le morali che si intendono trasmettere sono ottimistiche e fiduciose nell'umana ragione e nella possibilità di acquisire, per suo tramite, identità positive. Al suo risveglio, Dorothy scoprirà che il viaggio nel regno di Oz non è stato che un sogno. Quanto al mago e ai suoi poteri sull'uomo, la realtà di entrambi viene smentita e ricondotta a inganno.
Che la magia sia «inganno della ragione» è una vecchia tesi: risale almeno ai positivisti della seconda metà dell'Ottocento, nel quadro della loro visione della storia del pensiero umano che si sarebbe evoluto dal magico al religioso e quindi al razionale e scientifico. Il mago di Oz si situa da epigono in questa tradizione, almeno per quel che riguarda ottimismo e fiducia nelle umane capacità. Ma per quanto continui ad essere un cult è anche l'esempio più evidente e contrastivo di come la magia di oggi, con le relative narrazioni, sia ben altra cosa da quanto ci è dato di vedere in questo film. Espunto il tema razionalistico della magia come inganno, si impone, al contrario, quello della magia come realtà e come potere. In questo senso più prossimi ai significati presenti nelle fiabe della antica tradizione orale, libri e film come Il Signore degli Anelli , lo stesso Harry Potter (per ricordare solo quelli più recenti e di maggior successo) ci restituiscono il senso di un magico onnipresente, come forza segreta e magnetica capacità di comando sulle cose e sugli uomini, come bene conteso e assieme come arma di lotta messa in campo da ciascuno dei due avversari. Sono peraltro diversi anni che nella filmografia - e non solo in essa - tematiche del genere, rivolte a un pubblico adulto, si sono sempre più andate imponendo, con una capacità incisiva pari alle inquietudini dei tempi.
Ma non è delle inquietudini dei tempi che vorrei parlare, per iscrivere in esse il tema generale di questo ritorno del «magico», che può anche essere visto in stretta connessione con altri «ritorni», come quello della cosiddetta «spiritualità». Parole entrambe vuote di senso, se non si decostruisce la storia dei rispettivi significati. Sembrerebbero perfino meno contrapposte, più ravvicinate di quanto non lo fossero in passato, se si guarda con disincanto la grande babele discorsiva che caratterizza la attuale temperie culturale.
Se mi si ponesse la domanda: ma insomma, la magia esiste? E quella di oggi è la stessa di quella di ieri? Forse risponderei: esiste e non esiste, a seconda di come noi la possiamo intendere ed essa si possa eventualmente rappresentare. Le due cose vanno viste assieme, in senso reciproco. Semmai è esistito un discorso «magico» nel senso pieno della parola, forse potremmo trovarlo nei secoli passati, a cavallo tra medioevo e modernità, quando della magia si facevano interpreti filosofi e alchimisti (i libri di Paolo Rossi ci insegnano molto sull'argomento). Ma oggi, di quali significati riempiamo questa parola? Più che mai, il termine «magia» ci appare assieme inflazionato e deflazionato: inflazionato per l'infinita reti di proliferazioni di pratiche e rappresentazioni che si autodefiniscono questo o quello, e anche questo e quello, tutto e il contrario di tutto. Per questo, nella sua pur apparente avanzata, anche la parola «magia» può finire con l'avere un significato debole.
Ho tra le mani un cofanetto Millelire dal titolo Non ci casco!, che si avvale di vari contributi - a partire dal nome prestigioso di Margherita Hack - improntati tutti a quel vetero-positivismo che apparentemente è più intramontabile di quanto non si pensi e ancora sembra l'unico strumento su cui fondare un'operazione di smantellamento della magia. Tra gli autori compare anche Piero Angela, ghostbuster assolutamente certo della giustezza del suo progetto pedagogico-televisivo, e non sfiorato dal dubbio che la strada di un eventuale «smantellamento» della magia e dintorni possa passare attraverso canali diversi, interpretativi sotto il profilo ermeneutico e storico-culturale della grande varietà di significati che si può attribuire al termine e al relativo orizzonte semantico. Un orizzonte che oggi ci appare sempre più dilatato e frammentario.
Ideato dalla associazione Cicap, il Millelire intende presentare sei manualetti antitruffa «per difendersi da imbonitori, medium, guaritori, maghi», con una sommatoria di attributi e di funzioni che (tranne la parola «imbonitori») corrispondono più o meno, forse meno che più, agli stessi raggruppamenti di testi che in una libreria andrebbero nello scaffale New Age. In un libro che potrebbe indifferentemente intitolarsi La magia moderna o Occultismo oggi gli stessi argomenti formerebbero, invece, capitoli diversificati, con eventuali aggiunte quali: cartomanzia, tarocchi, veggenza, occultismo, fattura e maleficio, karma e prana, satanismo, rituali, macuba, magie tibetane, pranoterapia, ipnotismo, e così via. Anche nella pubblicità delle televisioni private, nei rotocalchi, su Internet si fanno avanti personaggi autoidentificantisi come «maghi», ma anche e più spesso come «operatori dell'occulto», e si ripresenta in offerta la sommatoria di queste, e altre, capacità pertinenti agli ordini più diversi quanto a origine storico-culturale e modalità pratico-rappresentative. Sul piano concettuale, non c'è un'unica categoria che le possa comprendere.
Se esiste un universo mobile e contaminato come quello che si indica in termini di «postmodernità» forse è proprio questo. Anche nell'età moderna, la cosiddetta «magia» si è sviluppata e riprodotta operando continue ibridazioni con le forme dei discorsi dominanti: vuoi quello della chiesa vuoi quello della scienza. Si è tolto il malocchio facendo un segno di croce, si è trasmesso con le mani il «fluido magnetico» chiamando «esperimento scientifico» questo tipo di operazione. Ma sincretismi e ibridazioni marcavano i limiti di egemonie discorsive ancora relativamente forti, erodendone i margini, offrendo persino soluzioni compromissorie, senza però arrivare a occuparne i rispettivi campi. Oggi, piuttosto, siamo alla gran confusione dei linguaggi, al continuo rincorrersi per sottrarre all'altro una parte almeno del suo potere di parola e di azione. Anche (ma non solo) per questo, il tema del potere sugli uomini e sulle cose torna a imporsi, attraversando e accomunando ciascun frammento di un universo sempre meno definibile.
E i maghi? Chi sono? Ci sono? No e sì, risponderei. E per dar senso a questa risposta suggerirei di fare un piccolo passo indietro. Non sempre o ovunque, venivano indicate come «maghe» o «maghi» le persone che per tradizione mettevano o toglievano la fattura, incantavano i vermi, legavano o slegavano gli amanti. Erano persone che «sapevano», e la loro assegnazione al territorio della magia avveniva piuttosto dall'esterno, in primo luogo dai rappresentanti della chiesa. Oggi, al contrario, è possibile imbattersi in personaggi che si autodefiniscono Mago Athor o Maga Lucrezia, riappropriandosi di un attributo un tempo dispregiativo. Di questa sceneggiatura fa parte il richiamo alle antiche tradizioni alchemiche, come marchio sapienziale e di potere. Quanto alla maga, tenderà a offrirci le sue reinventate cure attraverso le erbe o gli aromi.
I maghi possono dunque ritrovare un loro spazio, ancorché profondamente risemantizzato, nel nuovo contesto di quell'offerta cumulativa di interventi diversi, che ricolloca immagine e funzioni del mago all'interno di una rete più vasta di significazioni.
E i maghi veri, quelli delle fiabe e dell'infanzia, col berretto a cono coperto di stelle e la bacchetta magica? Una volta entrati in questo mondo, non ne sono usciti se non per trovare nuove collocazioni in quei truculenti universi mediatici cui accennavo, e che a loro volta costituiscono parte non secondaria nell'attribuzione di credito ai cosiddetti poteri dell'occulto. Ma per nostra fortuna qualche buon vecchio mago lo possiamo ancora incontrare tra quegli illusionisti che offrono «spettacoli di magia» per bambini o tra quei piccoli Merlini che, a carnevale, più o meno felici, si esibiscono al fianco di una fatina tutta vestita di rosa.


“il manifesto”, 24 dicembre 2003

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