3.5.16

Mostra a Parigi. Il collaborazionismo e la caccia all'ebreo (Sergio Luzzatto)

Recensione di una mostra dello scorso anno questa corrispondenza parigina di uno storico di valore è anche la confessione di una difficoltà a collocarsi nell'oggi e a scegliere le domande che dall'oggi occorre rivolgere al passato. (S.L.L.)

La prima volta, in dicembre, c’ero andato da storico. Sfavillante delle luci di una vigilia natalizia, Parigi sembrava invitare ad altro sia i parigini stessi, eternamente frettolosi, sia i turisti più o meno sfaccendati. Shopping a parte, anche lì, nel Marais, sembrava esserci di meglio da fare – per chi non fa lo storico di mestiere – che infilarsi nel cortile delle vecchie Archives Nationales. A cominciare da un Musée Picasso finalmente riaperto. Mentre salivo lo scalone dell’Hôtel de Soubise per visitare la mostra su «La Collaboration 1940-1945», avevo la sensazione di non fare altro che qualcosa di professionale, quasi di tecnico. La solita mostra documentaria, la solita polvere del tempo.
Mi ero soffermato su certe cose, avevo sorvolato su altre. Mi avevano particolarmente colpito le pagine spiegazzate degli elenchi stilati con zelo, nell’ottobre 1940, dai funzionari della Préfecture de Police di Parigi: il censimento sistematico – strada per strada, casa per casa, abitante per abitante – di tutti i «juifs» residenti a quella data nella capitale e dintorni. In pratica, il lavoro preparatorio per la caccia all’ebreo che si sarebbe aperta quindici mesi più tardi. Sgualcite dall’uso e ingiallite dal tempo, le Pages Blanches di uno sterminio ordinato dai tedeschi, ma organizzato dai francesi.
La mostra (che resterà aperta fino al 5 aprile) espone i materiali più vari, dalle carte di polizia ai manifesti di propaganda, dalle fotografie ufficiali ai manoscritti letterari. Il più notevole di questi ultimi consiste in due pagine di Céline, la versione autografa del pamphlet Les beaux draps. Io mi ero chinato su quelle due pagine, nella vetrina, con il consueto disagio di chi scopre gli orrori di stampa dell’antisemita più talentuoso d’Europa: con la nausea dell’ammiratore disgustato. Né la nausea era scomparsa quando mi ero chinato sulla vetrina accanto: le amatissime copertine bianche di Gallimard, il venerato logo in corsivo minuscolo, nrf, ma in alto, come autore di quel libro, il nome di Drieu La Rochelle. L’editore opportunista e il collaboratore collaborazionista.
Oggi – due mesi e mezzo dopo – all’Hôtel de Soubise voglio ritornare non più da storico, ma da cittadino (italiano o francese, poco importa: diciamo da cittadino europeo). Voglio visitare la mostra sulla «Collaboration» con gli occhi di chi ha visto, nel frattempo, cose che non avrebbe immaginato di vedere nel suo Paese d’adozione, la proverbiale Francia della Rivoluzione e dei Diritti dell’Uomo. Non soltanto le immagini di due incappucciati nerovestiti che risalgono in macchina, urlando, un momento dopo avere vendicato Maometto e un momento prima di freddare, per strada, un poliziotto di nome Ahmed. Né soltanto le immagini dei clienti di un supermercato kosher, uomini e donne con bambini in braccio che fuggono terrorizzati nel pomeriggio di un giorno da cani.
Pochi giorni fa ho visto altro ancora. Immagini meno drammatiche, e nondimeno inquietanti. Ho visto il video di un reporter israeliano che ha camminato dalla mattina alla sera, con una kippah in testa, per le strade del centro e della periferia di Parigi: nient’altro che camminato, dritto davanti a sé, senza far nulla per attirare l’attenzione. E che tuttavia ha raccolto, per reazione, una quantità di sguardi ostili, gesti aggressivi, commenti volgari. Indici puntati contro il «sale juif», lo sporco ebreo.
Sputi addosso. «Questo qui è venuto per farsi fottere». Ho visto anche, nei giorni scorsi, le fotografie delle tombe profanate di un cimitero ebraico d’Alsazia. Una cittadina tranquilla, un paesaggio incantevole all’intorno, e nel campo israelitico decine e decine di sepolcri divelti, vandalizzati, distrutti. I responsabili? Quattro ragazzi del posto, incensurati, fra i quindici e i diciassette anni. Come a dire che potrebbero essere i compagni di scuola dei miei figli.
Sì, ritornando alle Archives Nationales, voglio guardare con occhi diversi la mostra parigina sulla «Collaboration». E voglio farlo pur sapendo che i tempi della storia non vanno mai confusi. Sapendo che l’anacronismo è anzi il peccato mortale dello storico, e che sarebbe improprio per tutti (storici o cittadini) assimilare questo nostro tempo agli anni Quaranta del Novecento. Ma oggi non mi interessa – al limite – la disumana eccezionalità di quei tempi di ferro e di sangue, 1940-1945, la Seconda guerra mondiale, l’Occupazione, la Soluzione finale. Oggi mi interessa l’umana banalità dei meccanismi di difesa e di offesa sociale. Mi interessano il sentimento di appartenenza, la diffidenza verso l’“altro”, la tentazione del capro espiatorio.
Fanno impressione, è chiaro, le fotografie più tragiche della mostra. La foto dei pullman in coda il 16 luglio 1942, quell’unica foto esistente della retata del Vél d’Hiv, 13.152 ebrei da deportare tutti in una volta. Le foto degli ebrei stranieri internati nei campi della Zona Sud e adesso pronti a partire, in fila indiana, per Drancy e poi per Auschwitz. Ma non sono meno impressionanti, a ben guardare, altri documenti esposti alle Archives Nationales. Certe lettere anonime, per esempio.
Delazioni spicciole. Pedinate quello, controllate quell’altro, arrestate quell’altro ancora. Regolamenti di conti da vicini di casa (o da amanti delusi, o da concorrenti commerciali) bardati di patriottiche accuse contro gli ebrei o contro i massoni, contro i comunisti o contro gli stranieri.
Nella Francia del 2015 – dove il Front National prevede ragionevolmente di vincere le elezioni dipartimentali di fine marzo – quanto più colpisce della mostra sulla «Collaboration» è la forza sempreverde di una doppia retorica: la retorica una e bina dell’inclusione e dell’esclusione. Noi e loro. Ecco la famosa «Affiche rouge», il manifesto stampato nella Parigi tedesca del febbraio 1944 contro i combattenti partigiani della Main-d’Oeuvre Immigrée. Che cos’hanno in comune i dieci resistenti più ricercati della regione parigina (e infine catturati, e condannati a morte)? Sono tutti stranieri. Quattro ebrei polacchi, tre ebrei ungheresi, un «comunista italiano», uno «spagnolo rosso», il «capobanda armeno». Nessuno è francese, nessuno è dei nostri. Sono tutti alieni. Hanno combinato tutto fra loro. [Erano militanti della IV Internazionale, nota nostra]
Se una retorica dell’esclusione può apparire spesso così primaria da riuscire ingenua, una retorica dell’inclusione può risultare altrimenti sofisticata. Ecco, alla mostra, la foto di un elegante palazzo parigino della Rive droite e un cartellone che troneggia al quarto piano, davanti alle finestre d’angolo: «Vogliamo la Francia unita in un’Europa unita!». La Francia unita in un’Europa unita?
Al pianterreno del palazzo, una gigantografia del maresciallo Pétain illustra di quale Francia e di quale Europa si tratti. Perché nel 1940 come nel 2015 le parole degli slogan europeisti suonano bene, ma non bastano a dire tutto. In fondo, sarebbe stata un’Europa unita anche quella della pax hitleriana.
Voglio tornare all’Hôtel de Soubise, ma non sono sicuro che rivedere la mostra servirà davvero a chiarirmi le idee. Da un lato, so di detestare l’appello che Benjamin Netanyahu lancia continuamente, da Israele, a tutti gli ebrei di Francia: venite qui, vi aspettiamo, è questa la vostra patria. Dall’altro lato, sento che non deve smettere di parlarci la storia della Terza Repubblica francese naufragata tra le acque di Vichy: una storia fatta – anche quella – di crisi economica, disoccupazione di massa, sgretolamento dei valori democratici, stigmatizzazione del diverso da sé, fascino dei leader populisti.
Né deve smettere di parlarci la storia (precedente, e meno nota) della «destra rivoluzionaria» in Francia: la cultura politica che iniettò all’Europa – oltre un secolo fa, e prima ancora di Benito Mussolini – il bacillo dell’ideologia fascista. Quella strana miscela di destra e di sinistra, di disciplina e di rivolta, di ruralismo e di operaismo, di frustrazione e di fierezza, di crociata e di laicità, che nella Francia di oggi viene quotidianamente impastata da una signora che tutti, ormai, chiamano familiarmente «Marine».


Il Sole 24 Ore Domenica, 1° marzo 2015

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