4.5.16

Native adversiting. Giornalisti: da redattori a pubblicitari (Lelio Simi)

L’ultimo in ordine di tempo è il “New York Magazine”, che dopo un fantastico 2015 con reportage pluripremiati – come quello che racconta la storia delle 35 donne che hanno accusato l’attore Bill Cosby di abusi sessuali – ha annunciato in queste settimane il prossimo lancio di una nuova agenzia per espandere la propria attività nel creare pubblicità nei nuovi formati: il native advertising (quello, per intenderci, che tenta di rivedere e correggere i vecchi publiredazionali adeguandoli ai tempi del digitale).
Oggi i branded content studio, come vengono comunemente chiamate le divisioni interne ai giornali che si occupano di progettare e realizzare le campagne pubblicitarie per le aziende loro clienti, sono diventati anche per le testate che puntano sulla qualità dei propri contenuti la nuova grande scommessa. Utile a cercare di limitare i danni del calo dei fatturati.
Il “Guardian” e il “New York Times” sono stati tra i primi un paio di anni fa a percorrere questa strada – occupando un settore di mercato fino ad allora riservato alle agenzie creative indipendenti – e oggi hanno già provveduto ad ampliare il proprio raggio d’azione: il Guardian Labs, l’unità interna del quotidiano britannico da 130 dipendenti specializzati in content marketing, ha aperto una propria sede a New York in aggiunta di quella di Londra. Percorso inverso per il T Brand Studio del Times – uno staff di 45 persone che in questi due anni ha realizzato 120 campagne per 60 clienti – sbarcato a Londra qualche mese fa per conquistare il mercato europeo di questo nuovo formato pubblicitario.
Insomma per le testate tradizionali attivare unità interamente dedicate alla produzione di native advertising è ormai diventata una scelta obbligata: il Brand Studio del Washington Post o il Custom Studio del “Wall Street” Journal lavorano già da tempo a ritmo pieno, e molto spesso con lavori di ottima qualità, per aziende come l’emittente Fx, Microsoft, General Electric o Accenture. E l’elenco potrebbe continuare per molto, con strutture simili attivate recentemente in quotidiani come “Usa Today”, riviste come il “National Geographic” o reti televisive come Nbc Universal (e in Italia un primo esperimento in questa direzione è “Numix” di Rcs lanciato lo scorso anno).
All’inizio gli editori hanno dato vita ai propri branded content studio soprattutto spinti dalla necessità di diversificare i ricavi, aggiungendo nuovi servizi da offrire agli investitori pubblicitari. Ma in questi due anni la crescita esponenziale dell’uso degli ad blockers, i software blocca-pubblicità, ha contribuito notevolmente a far crescere l’interesse da parte degli investitori pubblicitari verso i contenuti sponsorizzati. Che hanno il grande pregio, per la loro assoluta somiglianza a normali articoli giornalistici, di aggirare questi blocchi.
Così oggi in molti sono convinti che questo sarà il formato pubblicitario del futuro. E ci sono un po’ di numeri che sembrano dare ragione a questa teoria. Secondo Business Insider le aziende spenderanno nelle sponsorizzazioni di contenuti 3,4 miliardi a livello globale entro il 2018; questa spesa si fermava a un miliardo nel 2013. E il native advertising nel suo complesso raggiungerà, nello stesso anno, i 21 miliardi di dollari: nel 2013 questa cifra era pari a 4,7 miliardi. Mentre uno studio ancora più recente, marzo 2016, realizzato da “Yahoo!” e “Enders Analysis” afferma che la spesa in native advertising nel solo mercato europeo crescerà dal 2015 al 2020 del 156%.
In questo scenario alcuni grandi giornali sembrano decisi a lanciarsi su questo mercato in maniera ancora più aggressiva, trasformando i propri content studio da strutture dedicate alla sola produzione di native advertising da pubblicare sui propri siti in agenzie di marketing digitale a tutti gli effetti, per fornire un catalogo di servizi sempre più ampio alle aziende e agli investitori pubblicitari.
È all’interno di questa nuova ottica che possiamo spiegarci alcune recenti operazioni, come l’acquisizione da parte del “New York Times” di una giovane agenzia californiana di marketing digitale (che vanta oltre un centinaio di clienti tra i grandi brand come Disney, Levi’s o L’Oréal) specializzata nel pianificare, realizzare e diffondere campagne pubblicitarie sui social media. Oppure l’investimento di 176 milioni di dollari fatto dalla News Corp di Rupert Murdoch su un’agenzia specializzata nel creare e distribuire pubblicità nell’online video, un formato molto utilizzato oggi per realizzare native advertising.
Entrambe queste agenzie hanno sviluppato software proprietari per raccogliere e analizzare dati su dinamiche e interazioni con gli utenti e, soprattutto, hanno acquisito competenze per interpretare questi numeri con metriche appropriate. Perché il futuro di questo tipo di contenuti sarà nell'intersezione tra creatività nel realizzarli, analytics avanzate nel saperli leggere e capacità nel distribuirli attraverso tutto il social media web.
Diventa, allora, fondamentale attrezzarsi con tutte queste nuove competenze per essere capaci di controllare direttamente tutte le diverse fasi della produzione, saltando i soggetti intermedi (per esempio le agenzie indipendenti che oggi soffrono, non poco, questa nuova concorrenza da parte dei giornali). Le testate come BuzzFeed lo hanno già capito da tempo e oggi sono agenzie pubblicitarie non meno che editori. Quelle tradizionali sono chiamate in qualche modo adattarsi, ma tutto questo porta inevitabilmente a un rapporto più stretto tra loro e gli sponsor.
Così queste strategie stanno causando delle mutazioni assai profonde anche sull’organizzazione interna dei giornali. Un esempio lampante: lo scorso settembre il “New York Times” ha deciso di istituire un nuova figura professionale all'interno della redazione: un senior editor con il preciso compito di «individuare i progetti editoriali che possano essere utilizzati per le sponsorizzazioni», si legge in una nota firmata dal direttore del giornale Dean Baquet, dalla quale si capisce tra l’altro che il nuovo ruolo è pensato per lavorare a stretto contatto con il settore pubblicità del giornale.
Insomma, una bella spallata allo storico muro tra “Stato e Chiesa” – quello che segna idealmente il confine tra redazione di contenuti giornalistici e settore pubblicità –, come hanno osservato in molti.
«Sarebbe stato inaudito una decina di anni fa», ha dovuto ammettere in un suo articolo Margaret Sullivan, che al “Times” riveste il ruolo di public editor (una sorta di garante del lettore), commentando l’attenuarsi di questo confine. «I puristi possono ragionevolmente rabbrividire perché c’è un concreto pericolo che il giornalismo possa essere sempre più guidato da interessi commerciali», ha aggiunto. Ma questo – sembra assolutamente esserne consapevole la public editor – è il modello di business con il quale inevitabilmente si devono misurare oggi gli editori. Lo dimostra il fatto che sui bilanci economici del “Times” il peso del fatturato da native advertising sul totale della pubblicità da digitale continua a crescere trimestre dopo trimestre o che per un importante editore come quello del “The Atlantic”, sul mercato dal 1858, la quota parte di ricavi da contenuti sponsorizzati abbia ormai raggiunto il 65% sul totale della pubblicità. È anche per questo che non sorprende più di tanto se già all’inizio del 2015 una scelta ancora più radicale di quella del “Times” l’abbia fatta il gruppo Condé Nast (l’editore di Vanity Fair, Vogue e il New Yorker) decidendo di coinvolgere direttamente alcuni giornalisti delle proprie redazioni nel ciclo di produzione di 23 Stories, la divisione interna di content marketing.
Una scelta simile è stata fatta più di recente dall’“Independent”, il giornale britannico che ha deciso di abbandonare definitivamente la carta e uscire solo in versione digitale dove i nuovi assunti saranno utilizzati – hanno confermato i responsabili della testata alla rivista Digiday – indifferentemente sia per lavorare nella redazione giornalistica che per il settore pubblicità. A questo punto la strada sembra segnata, ma è vero che il native advertising presenta ancora, nonostante il suo indubbio successo, una serie di problemi un po’ per tutti: per le redazioni che vedono la loro credibilità messa in discussione, per i lettori che hanno necessità di maggiore chiarezza e trasparenza per capire cosa realmente stanno leggendo. E infine anche per gli sponsor che, pur essendone attratti, hanno ancora difficoltà nel misurare, per questo tipo di campagne pubblicitarie, la reale efficienza e la concreta ricaduta sulla vendita dei loro prodotti.
Nodi da sciogliere per il futuro dei giornali, destinato ad essere segnato sempre più da questo complesso rapporto tra informazione e pubblicità.
E sul quale, oggi, nessuno può seriamente dirsi sicuro che sarà possibile trovare un punto di equilibrio tra le diverse esigenze delle varie parti coinvolte: gli editori, i brand e, soprattutto, i lettori.


Pagina 99, 16 aprile 2016

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