10.5.16

Profilo di Pablo Neruda. Le metamorfosi del poeta-fenice (Paolo Raffaeli)

Stenti alberelli e un'aiuola spartitraffico, il minuscolo square, fingono di riparare il palazzo seicentesco dal brusio del Quartiere latino e dai rumori che salgono dal boulevard più esclusivo di Parigi. È la zona degli intellettuali residenti e delle grandi case editrici che neanche il reticolo delle birrerie e i chioschi dei giornali riescono a rendere meno esotica. Una lapide ad altezza d'uomo ricorda che nel medesimo palazzo, sede dell'Ambasciata del Cile, abitò fra il 70 e il 72 il diplomatico Pablo Neruda, prima di tornarsene definitivamente in patria: proprio da Parigi, nel dicembre 71, era volato a Stoccolma per ritirare il Nobel espressamente dedicandolo ai dannati della terra e al popolo dei subalterni, gli anonimi dispersi nella cordigliera delle Ande o affogati dentro le miniere di rame e salnitro, nei ghetti di Valparaiso, il più beffardo dei toponimi. Nell'orazione ufficiale aveva parlato con l'orgoglio del proprio percorso individuale ma anche con la fierezza di chi dice al plurale, sentendosi appena una voce nel coro, scontandone l'arduo privilegio. Tutti sapevano che Neruda era lì come vicario di Allende e che anzi era l'insegna di Unidad Popular: non si era vergognato affatto di scrivere dei brutti versi (lui che era il più raffinato ed europeo dei latinoamericani) per lanciarli dal palco di un comizio, né aveva disdegnato i toni aspri e i contenuti grezzi, gli stessi che scandalizzavano esteti e anime belle. Neruda sapeva infatti che un esplicito mandato sociale, eclissatosi in Europa tra l'affare Dreyfus e la stagione dei Fronti Popolari, era ancora valevole e persino coatto in America Latina, il «cortile di casa» degli Usa, il paradiso coloniale delle grandi multinazionali, il luogo di una feudalità così cronica da sembrare ontologica. E' al popolo dei vinti e degli sfruttati che si rivolgeva dal palco di Stoccolma ma intendeva fustigare, al tempo stesso, e in pieno volto, gli uomini in marsina e in divisa, gli individui rispettabili che virtualmente preparavano la macellazione del suo popolo. Mentre Neruda pronuncia il suo discorso, le signore borghesi di Santiago battono le pentole vuote, i camion dei padroncini si fermano ipotecando i carichi del rame appena nazionalizzato, nelle caserme e nelle scuole militari fermentano reazione e rabbia: lì ribolle il Cile che avrà presto i tratti di un regime sanguinario e la maschera di Pinochet. Così il poeta, senza disdegnare la necessaria enfasi: «Abbiamo ereditato la vita lacerata dei popoli che si trascinano un castigo di secoli, dei popoli più edenici, più puri, di quelli che costruirono con pietre e metalli torri miracolose, gemme di abbagliante fulgore: popoli che all'improvviso furono distrutti e ridotti al silenzio dalle epoche terribili del colonialismo che tuttora esiste. Le nostre stelle primordiali sono la lotta e la speranza. Ma non c'è né lotta né speranza solitaria. In ogni uomo si sommano le epoche remote, l'inerzia, gli errori, le passioni, le urgenze del nostro tempo, la velocità della storia.»
Poeta laureato, di ritorno a Parigi, Neruda torna col pensiero al Cile delle origini e al profondo sud di Temuco, dove bambino (era nato invece a Parral, il 12 luglio 1904) era stato portato dal padre ferroviere. Temuco è la couche che presiede, proteggendone l'ispirazione e tuttavia ferendola nei modi di una spina primordiale, a una modalità mai smentita di percepire gli elementi e la terra. E' qualcosa di tattile e insieme scabroso, una sensualità che nella pietra, nella rena, nel più vile dei metalli, avverte la terza dimensione (il peso, la sostanza ponderale) e intanto percepisce su di essi l'inerzia del tempo, il ritmo inapparente della storia al lavoro, gli sfregi e gli insulti portati al paesaggio originario che ai suoi occhi non costituiscono affatto un problema di ecologia (egli ignorava o meglio irrideva la parola) quanto di economia politica. Ciò che decenni dopo Galeano documenterà per esteso in Memoria del fuoco è già implicito nel grande poema che suggella la giovinezza artistica di Neruda, Residenza nella terra, uscito in due volumi tra il 25 e il 35. Storia e natura, vale a dire spazio e tempo, vi si combinano per continuo paradosso e cortocircuito, così come esotismo e radice folclorica, raziocinio e declamazione. Si immagini un poeta che disponga della forza di Lucrezio nel sentire il ritmo tellurico degli elementi classici e poi si immagini un simile impulso arricchito e contraddetto dalla lezione aristocratica delle avanguardie europee, specie il surrealismo e l'espressionismo.
Carnale, sussultante ed erotico nel tutto tondo, Neruda giovane somiglia a un diapason capace di alternare toni e timbri dei due maestri che gli sono opposti proprio in quanto lui ne rappresenta il medio proporzionale: da un lato Ruben Darío, eccessivo e polifonico, l'«elefante canoro», dall'altro, ascetico e scavato fino alla spoliazione, il magnifico César Vallejo. Scrive in un frammento d'amore intitolato In te la terra: «(...)/ le tue spalle salgono come due colline/ i tuoi seni si muovono sul mio petto,/ il mio braccio riesce appena a circondare la sottile/ linea di luna nuova che ha la tua cintura:/ nell'amore come acqua di mare ti sei scatenata:/ misuro appena gli occhi più ampi del cielo/ e mi chino sulla tua bocca per baciare la terra.//». Sono versi tratti da Todo el amor - Antologia personale, Passigli Editori 1997, uno dei libri scampati al diluvio delle traduzioni italiane, uno dei pochi che non facciano rimpiangere le vecchie e benemerite versioni di Dario Puccini.
Destino di un autore che da noi, negli anni 60 e 70, entrava nel senso comune e si vendeva in edicola, se è vero, ad esempio, che senza la folgorazione di Residenze forse Guccini e i Nomadi non avrebbero mai scritto né cantato una canzone dove il culto di Neruda è ufficiale, Noi non ci saremo. Allora si trattava di un mito a tutti gli effetti, che certo ne ignorava la successiva biografia politica, compreso il plauso a Stalin, però sapeva trapiantarlo sul terreno della controcultura e della rivolta beat. Era di casa, insomma, con i libri di Kerouac, di Ginsberg, Pasolini e Garcia Marquez, come non lo sarebbe più stato, meno che mai trent'anni dopo, nonostante Il postino di Skarmeta e l'enorme successo del film, omaggio postmoderno a una figura poco somigliante che incarnava l'estremo riserbo e una nostalgica malinconia.
Gli anni di mezzo, della piena maturità, equivalgono per Neruda a un passaporto di definitivo cosmopolitismo: attivo nel consolato di Madrid, fra il `34 e il `36, assiste al declino della Repubblica, partecipa alla guerra civile e si lega di amicizia ai maggiori della cosiddetta generazione del `27, Rafael Alberti e Garcia Lorca, col quale fraternizza a partire da un comune intendimento del duende, l'estro ditirambico, il piccolo demone che detta l'ispirazione e il ritmo della poesia; dopo aver aderito al Partito comunista torna in Cile e viene eletto senatore per essere deposto a forza già nel '48. È comunque il primo esilio (Capri del Postino, dal `51 al `52, ne è solo una tappa ulteriore) l'unica cornice pensabile per l'altro suo capolavoro, il Canto generale ('50), poema epico scritto a pieni polmoni, pensando alla vastità del continente e al modello magnanimo di Whitman, dove preme all'interno una foga corale, con accenti di laica eucaristia, capace di rinnovare e rilanciare le parole d'ordine dell'antimperialismo e del socialismo umanitario. È dal Canto generale che Neruda può dirsi Neruda, il poeta che si permette la diretta espressione di quanto viene impedito alla stragrande maggioranza dei suoi colleghi nell'emisfero boreale, non esclusa l'appendice imbarazzante di troppi versi d'occasione: cioè la concomitanza del suono e del segno, l'aderenza senza residuo della parola alla cosa, il dire «noi» al posto di «io» senza doverlo necessariamente dissimulare, l'agire a volto scoperto una poetica dell'antagonismo e dell'engagement; e finalmente il prendere parola a nome di chi sta sotto e da sempre è sfigurato, ammutolito, per selezione storica e di classe. Ne pagherà un prezzo esoso in termini artistici ma molto alta sarà la ricompensa umana e politica. Ovvio che i versi prodigati dal palco di Unidad Popular (nell'estrema stagione del suo impegno, quando è stanco, onusto di gloria e vulnerato dalla malattia) sono versi effimeri, però è ovvio altrettanto che il libro testamentario che li riunisce, Incitamento al nixonicidio e elogio della rivoluzione cilena (Editori Riuniti 1973) fu un colpo micidiale per l'immagine di Kissinger e per quella dell'Itt che agì da committente nel colpo di stato: «Così Nixon comanda col napalm/ così distrugge razze e nazioni/ così governa il triste zio Sam». Racconta Roberto Bolaño in Notturno cileno che quei versi li cantavano a bocca chiusa i tremila compagni di scorta al suo funerale, incuranti della soldataglia di Pinochet che pure aveva profanato, distruggendone la biblioteca, la veglia funebre per il poeta morto a Santiago il 23 settembre 1973, la settimana dopo il golpe; ma quei versi li avrebbero cantati, per almeno un decennio, anche i giovani italiani che sapevano a memoria le canzoni di Violeta Parra e Victor Jara, che scandivano a voce alta El pueblo unido, l'inno ormai esule di Unidad Popular, ai concerti degli Inti Illimani. Molti se ne sono dimenticati, se ne sono persino vergognati quasi si trattasse di un'acne giovanile, ricacciando nel passato remoto il poeta che sentirono un compagno; forse è loro che continua ad aspettare Pablo Neruda, ma li aspetta, come ogni poeta, al futuro anteriore.

il manifesto 11 luglio 2004

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