1.6.16

Gender gap. All'Università più donne che uomini (Andrea Luchetta)

Quel panda dello studente maschio
Effetti collaterali dell’emancipazione femminile: nelle università americane i ragazzi si fermano al 43% del totale. «In quel 40%», diceva al New York Times una studentessa piuttosto contrariata, «forse prenderemmo in considerazione solo la metà dei ragazzi, e in quel 20% la metà ha già la fidanzata. Siamo tutte in lotta per lo stesso 10%». Risultato: le donne «competono per gli uomini secondo criteri maschili», spiegava la sociologa Kathleen Bogle, alludendo alla predilezione per le avventure da una sera sulla storia romantica.
Uscendo dal romanzo d’appendice, il gender gap nelle università – sbilanciato a favore delle femmine in buona parte dei Paesi Ocse (media del 56% di studentesse) – è un fenomeno che sta crescendo a velocità fulminea. Restiamo in America: negli anni ’70 gli studenti maschi erano il 58%; oggi le proporzioni sono pressoché invertite, con le ragazze al 57. Nel 2014 si è consumato il sorpasso sui diplomi: il 32% delle donne possiede una laurea, contro il 31,9 degli uomini. Spread destinato ad aumentare a ritmi da debito greco, se è vero che il 60% dei nuovi laureati negli Usa oggi è femmina, aspettando l’elezione del primo presidente donna nella storia degli States. L’Italia è perfettamente in linea con la media Ocse: le ragazze nei campus rappresentano il 56% del totale. E nella fascia di popolazione tra i 30 e i 34 anni, il 30,8% delle donne ha una laurea, contro il 20% degli uomini. Nel 2002 la differenza era di soli due punti (14,2% a 12).
La questione è particolarmente sentita in Gran Bretagna, dove le studentesse pesano per il 56%. Nell’ultimo anno, la differenza ha toccato le 36 mila matricole: ragionevolmente, lo stesso numero di futuri lavoratori mancati nella knowledge economy, scrive “The Atlantic”. Il Servizio per le ammissioni a Università e College ha lanciato l’allarme: senza misure ad hoc, la differenza tra i sessi nei campus rischia di pesare ancor più di quella tra ricchi e poveri.
Ma è l’incrocio del genere e della provenienza sociale a preoccupare di più Londra: la categoria meno rappresentata nelle università britanniche è quella dei ragazzi bianchi della working class, col rischio di bloccare a metà strada l’ascensore sociale. Solo un maschio su dieci tra i bianchi che vivono nei quartieri più poveri sceglie di iscriversi all’università – o riesce a farlo –, contro il 52% delle ragazze con le stesse radici.
Nessun segmento etnico ha una media altrettanto disastrosa. Al contrario, il quinto più povero degli studenti di origine cinese ha il 10% di chance in più di diventare matricola del quinto più ricco degli studenti bianchi. Segno di un’esclusione che travalica i soli confini di genere.
Le origini di questo fenomeno sono oggetto di infiniti dibattiti. Banalmente, ma forse senza discostarsi dal vero, il presidente dell’Università di Liverpool Janet Beer spiega che per i maschi «studiare duro dopo gli 11 anni diventa una cosa da sfigati». Come testimoniano i risultati dei test condotti nei Paesi Ocse: le ragazze tendono a ottenere voti ben più brillanti dei compagni di classe. A 15 anni i maschi hanno un vantaggio in matematica stimato in tre mesi di programma, ma il ritardo sulla lettura pesa già per un anno. Gli studenti che praticano attività extracurriculari come la musica o il teatro raccolgono risultati migliori, ma sono tutti svaghi considerati poco maschili. In due parole, spiegano Thomas DiPrete e Claudia Buchmann – autori di The Growing Gender Gap in Education and What It Means for American Schools – i risultati deludenti dei ragazzi a scuola «hanno a che vedere con le norme sociali sulla mascolinità». Chiosa Hanna Rosin, autrice di The End of Man : «E se semplicemente l’economia postindustriale fosse più adatta alle donne che agli uomini?».


Pagina 99, 14 maggio 2016

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