27.6.16

La Rivoluzione americana come guerra civile. Inglesi mascherati da indiani (Alessandro Portelli)

Le statue di George Washington e Thomas Jefferson nel Washington Jefferson College 
La prima guerra civile americana ebbe inizio a Bunker Hill, sobborgo di Boston, nel 1776. Fu allora infatti che cittadini di una stessa nazione, sudditi di uno stesso stato, eredi di una medesima civiltà e parlanti una medesima lingua, cominciarono a spararsi addosso per decidere le forme della sovranità sugli stanziamenti inglesi da quella parte dell’Atlantico.
Della rivoluzione americana si parla relativamente poco: in termini sacrali, per ricordare la nascita di un grande paese; in termini istituzionali, come processo di formazione di un nuovo stato; qualche volta, in termini polemici, per sottolineare la tensione sociale, gli aspetti in qualche modo classisti, che la attraversarono. Molto spesso, la si rappresenta in forma apologetica come la prima rivoluzione coloniale dei tempi moderni, il primo paese extraeuropeo che nasce liberandosi dal giogo coloniale di una potenza europea.
Tutto questo è senz’altro vero. Ma nessuno che ripensi quella vicenda con un po’ d’immaginazione storiografica può fare a meno di riflettere su quanto Washington e Jefferson somigliassero agli avversari inglesi. Dopo tutto il termine «americano» era entrato nell’uso comune, per definire i soggetti coloniali, non più di una trentina di anni prima: fino alla vigilia dell’indipendenza, i padri fondatori dell’America pensavano a se stessi più come inglesi che come americani, o pensavano agli americani come a una suddivisione degli inglesi. Nulla di più diverso dalle guerre coloniali successive: persino le guerre di liberazione dell’America Latina, così spesso assimilate ideologicamente o storicamente alla rivoluzione americana (e da essa in larga misura ispirate), contengono un elemento di diversità nella componente india che aveva finito col diventare, aldilà dei rapporti di potere coloniali, parte inestricabile dell’identità latino-americana. Ma l’indianità entra nella guerra d’indipendenza solo come maschera (travestiti da indiani i ribelli di Boston gettano in mae il té importato dall’Inghilterra, per protestare contro le inique tasse). Altrimenti, rispetto al sostrato indiano, americani e inglesi condividono lo stesso progetto: farlo sparire. Non sarà un caso che la guerra d’indipendenza sia una guerra «civile» anche fra indiani, schierati in parte con la corona e in parte con il Congresso. Dal punto di vista dei veri colonizzati, è una lite fra bianchi.
Il mascheramento indiano però ci dice alcune cose in più sulla maschera che sugli indiani. Nella misura in cui questa guerra d’indipendenza è anche conflitto fra simili, essa genera lacerazioni, duplicazioni, zone d’ombra e territori contesi, geografici e psicologici, che nella figura del mascheramento trovano il correlativo ideale. Come spesso accade, questo significato interiore dei fatti storici lo capiamo soprattutto dalla letteratura.
Il più notevole romanzo sulla rivoluzione americana, The Spy di James Fenimore Cooper (quello dell’Ultimo dei Mohicani: in cui appunto gli indiani si dividono fra buoni e cattivi a seconda se stanno con Washington o con Re Giorgio), parla appunto di questo. Il suo sottotitolo è «una storia del territorio intermedio», ed è una storia di mascheramenti e travestimenti, in cui lo stesso George Washington si traveste passando inosservato fra i suoi nemici, mentre il protagonista, agente segreto della rivoluzione, viene scambiato per un traditore dai ribelli stessi. L’argomento della storia è dunque la similarità, l’intercambiabilità fra le due parti in campo: ve lo immaginate, Amilcar Cabrai che si traveste per passare inosservato alla corte di Salazar? Il territorio neutrale è la zona d’incertezza in cui ciò che dovrebbe essere contrapposto si sovrappone (le guerre civili non hanno confini, non hanno territori separati: New York è alternativamente capitale dei ribelli e degli inglesi, a seconda di chi ne prende il possesso). Ma fra le righe di Cooper la zona contesa lo è anche perché costituisce quello che le due parti hanno in comune e che prepara una futura riconciliazione, in nome di valori e identità condivisi. Questo lo suggerisce la metafora familiare, letteralmente onnipresente negli anni della rivoluzione: le tredici colonie americane come «figlie» dell’Inghilterra. Nella prima parte della sua autobiografia, Benjamin Franklin ne offre una variante particolarmente significativa. Racconta di come, apprendista presso suo fratello, si fosse ribellato alla sua autorità perché questi la esercitava in maniera eccessiva e violenta: precisamente l’argomentazione con cui la Dichiarazione d’indipendenza legittimerà poi la rottura delle colonie con l’autorità della corona. Ma, pur non pentendosene mai, Franklin non si vanta di questo gesto; lo definisce anzi un «erratum» che sanerà poi riconciliandosi col fratello. Le condizioni di questa riconciliazione, beninteso, sono quelle date dalla liberazione: l’America può fare pace con l’Inghilterra, riconoscere la comune storia ed eredità, nel momento in cui non è più sotto il suo potere, come Franklin fa pace col fratello quando questi non può più esercitare autorità su di lui.
Tuttavia, la metafora familiare e l’insistenza sulla riconciliazione danno indicazioni importanti sulla natura di questa rivoluzione. In primo luogo, ci rivela che liberandosi dagli inglesi, gli americani non hanno cacciato un oppressore estraneo e straniero, ma hanno tagliato via dolorosamente una parte di sé. I profughi legittimisti che fuggono per tornare in Inghilterra, «boat people» della rivoluzione, sono tanto americani quanto Franklin o Jefferson - e Franklin e Jefferson sono tanto inglesi quanto il più inossidabile dei legittimisti.
Per questo, in secondo luogo, la metafora familiare e la riconciliazione dicono anche che la rivoluzione è percepita, non come un atto liberatorio, ma come un gesto carico di perplessità e di colpa, una situazione precaria, da chiudere subito, difficile da sostenere psicologicamente se non moralmente o legalmente.
Della difficoltà di guardare in faccia la rivoluzione parla il classico racconto di Washington Irving, Rip Van Winkte in cui il protagonista si addormenta magicamente prima del 1776 e si risveglia vent’anni dopo a cose fatte. La testa di Re Giorgio nel ritratto al muro della taverna è sostituita da quella di George Washington: è cambiato tutto politicamente (c’è una repubblica invece di una monarchia), non è cambiato gran che antropologicamente (sempre Giorgio si chiama il sovrano, e sempre la parrucca indossa, e sempre fa affiggere il suo ritratto ai muri delle taverne). La prima cosa che Rip vede è un altro se stesso, suo figlio, sosia identico, maschera, suo omonimo: quello che è avvenuto ha spaccato irrimediabilmente in due la sua identità.
Con tutto questo, non intendo certo dire che le altre, più abituali categorie - fondazione statuale, trasformazione sociale, indipendenza coloniale - siano da buttare. Piuttosto il contrario: la categoria della guerra civile le attraversa tutte, soprattutto quella della rivoluzione. Questa infatti è sempre una guerra fra simili, in cui il confine è economico o ideologico, come nelle colonie inglesi d’America del 1776, e passa non solo fra gli individui ma anche, più drasticamente, dentro di loro.
Nel frattempo, vorrei segnalare una variante sotterranea della metafora familiare, con conseguenze forze impreviste. Sempre più, l’America tende nella sua storia a legittimarsi non con le origini inglesi, ma con il radicamento nel nuovo continente: è la «teoria della frontiera», proposta da Frederick Jackson Turner nel 1893. All’inizio, si dava per scontato che prima degli americani non ci fosse nessuno: gradualmente l’America riscopre gli Indiani, e li rivendica come i veri antenati. La Storia della civiltà letteraria degli Stati uniti (curata da Emory Elliott, Utet, 1991) fa cominciare la letteratura americana dall’oralità indiana; e in Balla coi lupi Kevin Costner adotta i Sioux oglala come i suoi veri antenati. Ma se le cose stanno così, allora la seconda guerra civile americana non è ancora quella fra Nord e Sud, ma è la guerra lunga un secolo che l’America ha condotto contro gli indiani. Se adesso l’America rivendica di essere anche indiana, allora, retrospettivamente, anche Little Big Horn e Wounded Knee diventano sanguinosi episodi di una secolare guerra dell’America contro se stessa.


In AA. VV., Delle guerre civili, manifestolibri, 1993

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