27.6.16

Tina Anselmi. Da studentessa modello a staffetta partigiana (Anna Pizzo)

C'è una memoria che nulla e nessuno riuscirà a cancellare. È fatta di esperienze vissute, di lotta per la democrazia e per le libertà che, chi ha vissuto gli anni del fascismo, si porta dentro e a cui non è disposto a rinunciare. Tina Anselmi aveva tra i quindici e i sedici anni quando, da studentessa «modello», divenne staffetta partigiana.
A lei chiediamo di ricordare per noi a quale scuola, a quale cultura si è formata, cosa si studiava a soprattutto cosa non si studiava negli anni del fascismo e della guerra. Di scrivere insieme a noi, insomma, una pagina del suo diario di adolescente in un periodo della recente storia del nostro paese così cruento e devastante. 
Ancora oggi, mentre ripercorre quegli anni, la sua voce si incrina, il tono si fa a volte aspro, a volte commosso. Ai severi giudizi politici in Tina Anselmi si sommano e si confondono i sentimenti, le emozioni, le paure di quei giorni. Ma ricordare, dice, è un diritto prima ancora che un dovere, perché il vuoto di conoscenza è devastante.
«Bisogna partire da una considerazione difficile da capire per i giovani, oggi, e cioè che durante il periodo fascista noi vivevamo in un clima culturale molto diverso da quello in cui loro vivono. Anzitutto non eravamo a contatto con la cultura di altri paesi che erano ritenuti barbari o comunque non all’altezza di offrire dei contributi. Alcuni autori erano proibiti, penso ad esempio a Remarque con All’Ovest niente di nuovo, portatore di una concezione pacifista che denunciava non solo l’inutilità di qualunque guerra ma anche l’aggravamento dei problemi che la guerra porta con sé. Non parliamo, poi, dell’assoluta ignoranza in cui eravamo tenuti sui partiti, il loro ruolo, le loro idee. Chi studiava aveva un’area culturale molto limitata in cui dominava la dottrina fascista. Tutti noi eravamo obbligati, il sabato pomeriggio, ad andare al ‘sabato fascista’ perché chi non ci andava non era ammesso a scuola il lunedì mattina. Così il sabato pomeriggio ci veniva spiegata la dottrina di Benito Mussolini e noi ragazzi l’assorbivamo come fosse la normalità perché, tranne per chi aveva una famiglia con idee diverse, non esistevano anticorpi: non c’era la televisione, pochissime le famiglie che avevano la radio, pochissimi i giornali che entravano nelle case. Il primo articolo della dottrina fascista così recitava:‘lo stato è il valore assoluto, niente fuori dallo stato, niente contro lo stato, niente al di sopra dello stato. Lo stato è fonte di eticità'.
Quando è che a me e a tanti altri della mia età è scoppiata la crisi? Quando abbiamo visto questa dottrina tradotta in leggi e le leggi diventare operanti per cui dei ragazzi presi come ostaggi, messi in carcere, al primo atto di guerra furono uccisi per rappresaglia. La rappresaglia era giustificata da quella dottrina. Lo stato è fonte di eticità, quindi qualunque legge lo stato promulghi è di per se stessa, perché legge, morale. Non c’è niente al di sopra dello stato, quindi, per un credente, nemmeno la legge di Dio. Così, il giorno in cui a Bassano del Grappa tutti gli studenti di tutte le scuole vennero obbligati ad andare a vedere i ragazzi impiccati per rappresaglia agli alberi di un viale, oltre al dramma, all’orrore - io avevo fra gli impiccati il fratello della mia compagna di banco - si aggiunsero gli interrogativi: era giusto, era possibile, era ammesso che tutto questo avvenisse? Quella dottrina imparata così a memoria poteva ancora essere accettata? E qui è avvenuta la prima spaccatura perché il preside, un sacerdote, appena rientrati a scuola, accese l’altoparlante e disse: ‘Qualcuno di voi mi denuncerà, ma io ho il dovere in nome della chiesa di dirvi che quello a cui avete assistito è un delitto. Chi è innocente non può essere ucciso al posto di chi ha fatto una scelta sotto la sua responsabilità. Non può esserci una legge al di sopra della legge divina’.
Cominciammo a discutere tra noi studentesse, non tutte accettavano questa visione e così per la prima volta ci trovammo politicamente divise. Su di me le parole del preside ebbero un effetto immediato: cercai subito tra i giovani che conoscevo qualcuno collegato con le formazioni partigiane e dichiarai la mia disponibilità a fare quel che era possibile a 16 anni e mezzo in una guerra come quella che stavamo vivendo. Continuavo ad andare a scuola e contemporaneamente facevo la staffetta e nessuno sapeva della mia doppia vita anche perché nessuno a scuola se ne accorgeva dal momento che gli orari scolatici si rispettavano per modo di dire. Io abitavo a Castelfranco e per raggiungere Bassano - il treno non funziona - andavo in bicicletta ma c’erano i bombardamenti, i mitragliamenti. Quindi non c’era severità negli orari. Sia per la scuola che per la mia famiglia potevo mascherare questa attività. Il rapporto con le mie compagne di scuola era molto cambiato: vivevo con disagio il fatto che molte fossero favorevoli al regime. Disagio che aumentava a mano a mano che la guerra mostrava il volto più crudele del fascismo e del nazismo. Ci fu il rastrellamento del Monte Grappa, decine e decine di giovani uccisi, ragazzi bruciati vivi, ci furono episodi terribili nei nostri paesi. Se a scuola le cose andavano così, nella mia attività di staffetta sapevo che potevo chiedere di nascondermi presso qualsiasi famiglia perché le famiglie che stavano dalla parte dei tedeschi e dei fascisti erano così poche che le avevamo individuate, tutte le altre erano disponibili. E’ stata questa solidarietà dei contadini, delle famiglie operaie, dei parroci, è stata questa solidarietà della grande parte delle popolazione che ha permesso alla mia brigata, che operava in territorio controllato dai tedeschi e dai fascisti, di poter lottare. Se non avessimo avuto questo retroterra che ci proteggeva, che ci nascondeva e ci aiutava, difficilmente avemmo potuto svolgere la nostra attività di sabotaggio dei treni e dei trasporti che impediva ai tedeschi e ai fascisti di mandare in Germania i giovani e i macchinari delle fabbriche. Voglio ancora oggi dire un grazie enorme a tutta quella gente semplice e umile che ha rischiato la vita sapendo che per quel che faceva non avrebbe ricevuto né riconoscimenti né encomi ma semplicemente perché riteneva del tutto naturale farlo”.
Pensa che oggi si possa verificare il pericolo, se non di fascismo, di elementi di forte condizionamento culturale nelle scuole? “In questo periodo sono stata invitata a discutere in molte scuole e devo dire che la cosa che più temo è il vuoto, la non conoscenza. Qui il discorso va oltre il dato politico, ma temo questa cultura dell’evasione che nel vuoto di conoscenza può essere più devastante di quanto all’apparenza non sembri”.
Cosa pensa della manifestazione nazionale in difesa della scuola pubblica che si sta organizzando per il 29 maggio? Esiste a suo giudizio il pericolo che la scuola diventi un fatto mercantile, non più un diritto di tutti?
"Mi auguro di no. La mia esperienza come studentessa è stata in parte nella scuola pubblica in parte nella scuola privata. Riesco a recepire con difficoltà l’antinomia, la contrapposizione. Ma sono certa che ci sia l’obbligo per lo stato di garantire la scuola a tutti i giovani: è questa una funzione, un ruolo e una responsabilità a cui non è possibile rinunciare. Quando penso all’attuale rilettura dello stato dentro la cultura della privatizzazione che sta venendo avanti, se ho due certezze sono queste: la scuola, cioè la cultura e la sanità devono essere garantiti a tutti i cittadini, sono beni essenziali. Che poi esista anche il privato, che gli sia dato dello spazio, lo ritengo giusto ma deve avvenire avendo affermato prima questo principio".


Da Lezioni di storia. La scuola da giovanni Gentile a Francesco D'Onofrio. Supplemento a “il manifesto”, senza data, ma aprile 1994

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