2.6.16

Un durantino a Perugia. Ritratto di Cristiano Piccolpasso (Pietro Scarpellini)

Pietro Scarpellini
Di Pietro Scarpellini ogni tanto qualcuno si ricorda: una targa, un articolo, una citazione. In più di un caso si tratta di “indebita appropriazione”. Tale mi pare, per esempio, quella messa in atto nella commemorazione fatta a novembre da “Italia Nostra”, la cui sezione perugina egli aveva fondato e a lungo diretto. A ricordarlo erano i suoi successori: un avvocato che ha usato le sue benemerenze ambientaliste e protezioniste per diventare vicesindaco e che, da vicesindaco, si distingue soprattutto per aver esasperato la privatizzazione e il degrado degli spazi civici del centro cittadino, ove ormai non è più possibile un tranquillo passeggiare data l'invasione permanente dei tavolini e quella semipermanente dei baracconi; un architetto che di fronte a tutto ciò (e a molto altro) balbetta. 
Altra tempra Scarpellini, che non fu solo un difensore strenuo e disinteressato della bellezza e del bene comune di fronte a cementificazioni e mercantilismi, ma fu grande studioso dell'arte italiana e scrittore dalle doti non comuni. 
Ne è testimonianza la raccolta (in digitale) dei suoi articoli su “Il Mondo” e su “Il Ponte”, curata nel 2012 dalla deputazione perugina di storia patria, dei quali m'è accaduto di scrivere su “micropolis” (di cui fu collaboratore assiduo nell'ultimo tratto della sua bella vita). Si tratta, in generale, di scritti civili, collegati a battaglie che l'intellettuale Scarpellini sentiva di dover fare o di scritti “professionali”,cioè di interventi su temi d'attualità o recensioni di libri e di mostre da parte dello studioso. 
Quella che segue è però, nonostante l'apparenza della recensione, una pagina diversa, di alta letteratura illuministica, non dissimile da quelle che, con lo stesso tono basso e senza tromboni, usava riempire Leonardo Sciascia, quando – da erudito – si dedicava a figure del passato, ai più semisconosciute. Nel testo di Scarpellini sul volume recensito (il Ritratto dell'Umbria di Cristiano Piccolpasso, edito in quel 1965 dall'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte) si danno informazioni attendibili e utili, ma ancora di più viene costruito con affetto, ironia e grazia il ritratto del suo autore, che ne risulta figura interessante e simpatica. Ne scaturisce senza pedanteria una lezione etica, l'etica della libertà. Il tutto in un magnifico eloquio, aulico e leggibilissimo, nel quale non manca quello scarto dall'ordinario che fa di un artista un artista. Grande Scarpellini. (S.L.L.)
La Chiesa di S.Angelo della Pace a Porta Sole
Il nome del gentiluomo durantino Cipriano Piccolpasso è rimasto fin oggi legato ad una operetta di notevole risonanza nel campo degli studi sulla ceramica. I Tre libri dell’Arte del vasajo nei quali egli descrisse i procedimenti delle officine cinquecentesche con particolare riguardo per quelle della graziosa Castel Durante, oggi Urbania, che fu la sua patria, sono stati più volte pubblicati, studiati e commentati in questi ultimi due secoli. Tuttavia il Piccolpasso, se pur intrattenne qualche diretto rapporto con la tradizione del paese, mettendo forse a profitto dei ceramisti la sua abilità nel disegno e fornendo loro modelli, non fu un uomo del mestiere. Ed anzi nella prefazione del suo trattato (scritto intorno al 1548 quando era sui ventiquattro anni) egli confessa di essere sostanzialmente un profano; mentre alla fine del secondo libro dichiara di aver preso la penna soprattutto con l’intenzione di cercare un diversivo ai pensieri ed alle pene d’amore. Ove forse altro non è da vedere se non un vezzo letterario per ingentilire e nobilitare il soggetto.
Ma le aspirazioni di Cipriano dovevano andare ben oltre un’esistenza tranquilla tra i figulinei in riva al Metauro, tra i negozi dell’amministrazione locale e qualche sfizio letterario per passatempo e scarico d’estro. Egli aveva un ingegno sveglio ed un carattere assai vivace; la sua educazione era notevole per il luogo e per i tempi. A Padova, dove era stato paggio del Patriarca alessandrino, aveva frequentato i corsi dell’Università, con particolare attenzione per quelli letterari e scientifici. Sembra dunque assai naturale che il giovane cercasse di lasciare luoghi, i quali, per quanto a lui cari, non potevano più dar soverchia soddisfazione alle sue ambizioni. Tuttavia i documenti sulla sua attività e sulla sua vita tacciono per circa un decennio. Solo nel 1558 lo ritroviamo a Perugia come Provveditore di fortezza, ufficio di una certa importanza, cui era connessa la direzione dei lavori pubblici in città ed in campagna.
Il momento in cui in Nostro arrivava in Umbria non era davvero dei più favorevoli: il governo del Papa vi si era installato dopo la guerra del sale e da poco la Rocca Paolina gettava la sua ombra sui luoghi che avevano visto insieme alla protervia dei Baglioni, anche le ultime confuse aspirazioni alla grandezza e alla indipendenza. Per Perugia si iniziava allora quello che lo storico Bonazzi chiama il «riposo della servitù»; un riposo forzato, amaro, lunghissimo, che durerà più di tre secoli. Ma specie in quegli anni di assuefazione al nuovo regime, gravava sulla città un atmosfera torbida e inquieta: i nobili, vinti ed avviliti, andavano rimuginando nelle sventure recenti; i vincitori stessi mentre facevano le prove della loro politica (nella quale alle blandizie si alternavano le repressioni più severe) erano pieni di sospetti.
Quali furono, in quei frangenti i pensieri del Nostro? Certo egli non doveva nutrire soverchia simpatia per i nuovi padroni. Ma pure fu con loro ossequiosissimo; mentre d’altro canto si rendeva ben accetto alla società perugina riscuotendo successi in tutti gli ambienti, specie in quelli della cultura e dell’arte. Quanto agli incarichi che gli vennero attribuiti, egli li assolse con zelo e competenza, come quando, nel 1565, fu spedito per espressa volontà di Pio IV, a far ricognizione delle varie città e castelli dell’Umbria e trarne una particolareggiata relazione storico-topologica: il Papa desiderava un quadro il più preciso ed il più esatto possibile di quei suoi dominii sempre così torbidi e così inquieti. Dette ordine, per esempio, che si facesse ben attenzione «se gli uomini sono industriosi o otiosi, se bellicosi o agricoltori, se fattiosi o quieti» e principalmente «se affetionati alla Sede Apostolica o a signori o a principi esterni o famiglie nobili».
Il viaggio si iniziò il 12 aprile 1565 e terminò il 21 giugno di quell’anno stesso. Periodo di tempo troppo breve perché veramente si potesse eseguire tutto il lavoro richiesto; riesce anzi sorprendente come il Provveditore sia riuscito a visitare, a dorso di cavallo o di somaro, quasi tutte le località più importanti della regione, prendendo nota, sia pur sommariamente, del loro aspetto, del numero e carattere degli abitanti, dell’economia del paese, misurando le mura, facendo il computo dei materiali da guerra esistenti nelle rocche e fornendo un buon numero di disegni, alcuni dei quali molto belli. Fatto sta che dopo avervi aggiunti certi suoi ragionamenti tra i quali uno assai notevole sulla battaglia del Trasimeno presentò il tutto a Sua Santità, la quale, a quel che pare, ne rimase soddisfattissima.
Ma pel Piccolpasso quell’indagine non fu un puro e semplice atto d’ufficio, una pratica tra le molte del suo lavoro di sopraintendente. Il viaggio e la relazione diventarono per lui un canovaccio sul quale poter poi rielaborare il vario e vivo materiale di esperienze accumulate nei diciassette anni della sua permanenza in Umbria. E difatti lasciata Perugia e ritornato a Castel Durante (per le tristi vicende di cui diremo tra poco) il Piccolpasso riprese negli ultimi anni di sua vita, l’argomento, lo ampliò in altri due testi non solo assai più estesi, ma anche diversi rispetto alla stesura primitiva.
Sono i due manoscritti oggi nella Biblioteca Vaticana e nella Biblioteca Augusta di Perugia: il qual ultimo è stato recentemente pubblicato con i disegni e con la prima redazione (che si trova nella Vittorio Emanuele di Roma) in un’ottima edizione critica (Cipriano Piccolpasso, Le piante e i ritratti delle Città e terre dell’Umbria, a cura di Giovanni Cecchini, Istituto Nazionale di Archeologia e Storia d’Arte, Roma, Dicembre 1963, pp.307 con 65 tav.).
Si tratta di un libro prezioso per le interessanti e spesso inedite notizie di storia, di economia e d’arte; prezioso anche quale documento della Storia dell’Umbria sulle soglie di una delicatissima fase di involuzione politica-sociale. Ma non è possibile adesso entrare nei particolari di un’opera così complessa (e per il lettore che ne volesse essere informato segnaliamo l’eccellente saggio introduttivo del Cecchini stesso). Converrà solo accennare che soprattutto nel codice perugino, il Piccolpasso mise in piena luce la sua interessante personalità. Difatti non più legato da precisi compiti investigativi e dagli impegni di funzionario di governo egli poté esprimersi con maggior libertà. Mescolò con gran disinvoltura gli argomenti più disparati; le dissertazioni scientifiche di dati economici, le note tecniche a quelle erudite, la storia alla cronaca. Certo tra tanto affastellamento di cognizioni diverse è facile coglierlo in fallo: notare le incertezze della sua preparazione scientifica, lo scarso ordine mentale, la superficialità ed il semplicismo con cui affronta spesso questioni difficili e complesse. Ma in fondo tutto ciò non incide nel valore singolare che prende la sua descrizione dell’Umbria. Una descrizione che non deriva (come nelle consimili opere del tempo) delle fatiche di un letterato di professione o dalle ricerche di un erudito: ma che nasce dall’ingegno aperto di un geniale dilettante e di un vivace temperamento d’artista.
Per questa ragione, malgrado le divagazioni e l’eterogeneità stessa della materia, c’è in queste pagine un carattere unitario e quasi un filo interno: ravvisabile non solo nella diretta partecipazione dell’autore ad ogni piccolo episodio, ma anche nel giudizio morale che movimenta e colorisce, se pur con discrezione, tutto il racconto. In un contesto del genere anche l’aneddoto più semplice può acquistare un’importanza decisiva.
Come, ad esempio, nel Discorso sopra le cose di Perugia, è il fatto del bastaio di Porta Sole, il quale citato in giudizio dal suo principale, cominciò a difendersi in latino: «et cum tanta facilità» dice il Piccolpasso, «con uno stile tant’alto et tanto elegante, che tutti quei dottori rimanevano stupidi... Riprendendo anche Monsignore a costui che a servizio sì vile attendesse, offerendoli Monsignore la casa, da vivere et honesta provvisione come facevano anco molti di quei dottori, costui ringraziava tutti e diceva che la libertà era troppo gran ricchezza et che servire era troppo gran peso...».
Libertà: questa parola suona improvvisa, quasi drammatica nello sfondo di una Perugia così grigia e malinconica. E nel mentre usciva dalla penna dell’autore, acquistava un doloroso sapore autobiografico. Il 23 Gennaio 1575, il Piccolpasso, uscito di fortezza con due soldati, s’imbatté, per sua sfortuna, in un giovane, tal Leandro Sori, il quale era solito dileggiarlo. Forse quella mattina il Provveditore era d’umor nero: fatto si è che preso «un bastoncello in una bottega di falegname lì vicina diede due o tre baghettate» al fastidioso motteggiatore. Una cosa da nulla. Ma essa bastò a far intervenire il Governatore, Monsignor Valenti. Era costui uomo duro e sospettoso: per le rimostranze della famiglia del giovane offeso e più ancora per la sua particolar disposizione a veder dappertutto lo spirito di ribellione, avvertì immediatamente Roma. E da Roma venne l’ordine di dare un esempio. Fu così che al Provveditore vennero inflitti tre tratti di corda in pubblico ed una multa di cinquecento scudi. E poiché non poté pagarla fu bandito da Perugia e dall’Umbria.
Il povero Piccolpasso cacciato così brutalmente dalla città che era diventata la sua patria d’elezione, non si riprese più. Ricoperse, è vero, altri pubblici uffici prima a Massa di Carrara, poi di nuovo a Castel Durante, ove tornò definitivamente nel 1578; ma alla fine, avvilito ed anche malandato di salute, lasciò tutti gli incarichi e ritornò, nell’ultimo anno di sua vita, alle dilette carte perugine. Allora la storiella del latinista bastaio piuttosto che servitore e famulo del governo di Monsignore, prese il valore di un apologo, diventò l’amara morale della sua esperienza di vita.


Il Mondo 29 giugno 65, ora in Pietro Scarpellini (a cura di Attilio Bartoli Langeli), Perugia, 2012

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