10.7.16

L'ebraismo che bisogna sterminare. Una villa nei Colli Euganei (Sergio Luzzatto)

Vo' (Pd), Villa Contarini Vemier
«Se l’Italia è caduta nella vergogna e nel disonore, se l’Italia conosce oggi il periodo più oscuro della sua storia, ciò lo deve all’ebraismo, a quell’ebraismo che bisogna sterminare». «Dobbiamo pertanto liberarci una volta per sempre, senza sentimentalismi e senza discriminazioni, di questa genia malvagia di parassiti, che di italiano non ha che la cittadinanza usurpata e del tradimento il marchio inconfondibile».
Così, l’8 ottobre 1943, un giornale collaborazionista di Padova - «Il Veneto» - aveva suonato a raccolta contro la «razza ebraica maledetta da Dio». L’armistizio dell’8 settembre era stato annunciato da un mese esatto, Mussolini era stato liberato dalla prigione del Gran Sasso, la repubblica di Salò era sorta sulle ceneri dell’odioso tradimento del 25 luglio: che cosa bisognava attendere ancora perché i maggiori responsabili della rovina, i perfidi giudei, venissero colpiti da una «vendetta terribile e annientatrice»? Eppure le stesse autorità germaniche si erano limitate, fino a quel momento, a recepire i dati anagrafici e gli indirizzi dei 544 ebrei di Padova schedati già nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali.
Per gli impazienti collaborazionisti patavini della Soluzione finale, la prima buona notizia arrivò il 19 ottobre sotto forma di un treno piombato: erano i carri bestiame che trasportavano gli oltre mille ebrei di Roma razziati nel ghetto tre giorni prima, il 16 ottobre 1943, e che transitarono per la stazione ferroviaria di Padova verso una direzione ufficialmente sconosciuta, ma certamente ingrata ai passeggeri. La seconda buona notizia arrivò il 14 novembre, quando il congresso di Verona del Partito fascista repubblicano definì gli appartenenti alla «razza ebraica», fossero pure cittadini italiani, «stranieri» di «nazionalità nemica». A quel punto, anche giornali moderati come il veneziano «Gazzettino» poterono scatenarsi contro gli infami «discendenti di Giuda».
Il 1° dicembre, le prefetture della repubblica di Salò ricevettero dal ministero degli Interni l’ordine di deportare «tutti gli ebrei» in «appositi campi di concentramento». E per allestire tali campi disposero di adattare una varietà di luoghi più o meno conformi alla bisogna: caserme, scuole, colonie estive, ville di campagna. Su una ventina in totale, il campo maggiore fu quello di Fossoli (presso Carpi, in provincia di Modena) che già era servito al concentramento di prigionieri di guerra. Quanto agli ebrei di Padova e del Padovano, vennero concentrati in un’antica villa dal nome aristocraticamente risonante -villa Contarmi Venier - situata nel cuore di Vo’ Vecchio, un borgo al margine occidentale dei Colli Euganei.
Trascurato per decenni dalla storiografia universitaria e quasi obliterato dalla memoria collettiva, il campo di concentramento di Vo’ è stato “riscoperto” una ventina d’anni fa grazie alle ricerche di un studioso locale, Francesco Selmin: che ne restituisce ora la vicenda in un piccolo libro intitolato Nessun «giusto» per Eva. Una ricostruzione tanto asciutta quanto sensibile del destino occorso a qualche decina fra gli ebrei padovani investiti dalla Soluzione finale; una specie di breve microstoria, ma rivelatrice di una storia grande e terribile.
Il titolo del libro viene all’autore da una giovane ebrea italiana di origini ungheresi, Eva Ducci, che dopo l’8 settembre cercò scampo con la famiglia a Firenze e che, in realtà, nel campo di Vo’ non fu internata affatto: ma Eva aveva condiviso con altri ebrei del Padovano gli studi classici al liceo-ginnasio Tito Livio, prima di esserne esclusa dalle leggi razziali. Soprattutto, Eva Ducci condivise con la sessantina di ebrei internati a Vo’ dal dicembre 1943 al luglio 1944 (padovani in maggioranza, ma non solo: anche torinesi, triestini, sloveni) il destino della deportazione in Polonia. Fra gli ospiti coatti di villa Contarini Venier, soltanto tre - tre donne - ritorneranno salvi da Auschwitz.
Il campo di concentramento di Vo’ era così piccolo che Selmin ha potuto scriverne qualcosa come una storia totale: identificando per nome e per cognome non soltanto tutti i detenuti, ma anche la maggior parte dei (pochi) carcerieri. Selmin ha potuto inoltre ritrovare le tracce di alcune fra le suore elisabettine che prima dell’8 settembre avevano preso in affitto la villa, e che servivano i pasti ai futuri deportati. Ha ritrovato il menù (per così dire) di quei magrissimi pasti. Ha ritrovato perfino il fabbro al quale le autorità di Salò chiesero di costruire le griglie che dovevano impedire ai reclusi di scambiare lettere o messaggi con l’esterno. E Selmin ha ritrovato la bella figura del parroco di Vo’ Vecchio, don Giuseppe Rasia, che generosamente volle assistere gli ebrei internati nella villa, e i cui appunti costituiscono la fonte principale per questa storia della Shoah in miniatura.
Ci sono scene del libro che si fissano nella memoria. Come quella di Anna Zevi, un’ebrea di Este poco più che trentenne e gravemente malata, che il 30 gennaio 1944 fu autorizzata a uscire da villa Contarini Venier per raggiungere la chiesa parrocchiale e ricevere il battesimo cristiano. Il suo fu un sacramento diverso dal battesimo che tanti ebrei italiani si erano fatti amministrare, dopo le leggi razziali del 1938, per ragioni più o meno opportunistiche, cioè nella speranza di scampare in tal modo alla persecuzione: nel gennaio del ’44 Anna Zevi aveva ormai il destino segnato, l’acqua santa da lei ricevuta sul capo non sarebbe comunque valsa a tenerla lontano dal treno per Auschwitz.
Altra scena indimenticabile, quella di una bambina di sei anni - si chiamava Sara Gesses, ed era figlia di un ebreo di origini russe con negozio di valigie a Padova - che al momento della chiusura del campo di Vo’ cercò in tutti i modi di scampare a una sorte della quale, peraltro, doveva sfuggirle la portata. Dapprima, il 17 luglio 1944, Sara riuscì (forse con l’aiuto delle guardie italiane del campo) a non salire sui camion che trasferirono a Padova i reclusi di Vo’. E anche quando, l’indomani, una terrorizzata madre superiora delle suore elisabettine consegnò la bambina alle autorità tedesche del capoluogo, ancora Sara cercò di sfuggire al pullman destinato alla triestina Risiera di San Sabba, tappa intermedia del viaggio verso la Polonia.
Ma Sara, sei anni, non riuscì nell’intento. Finì per salirci anche lei sul convoglio 33T, il suo treno per Auschwitz. Con tutti gli altri internati di Vo’, sbarcò sulla rampa di Birkenau nella notte fra il 3 e il 4 agosto 1944. E come quasi tutti gli altri, fu immediatamente «selezionata» e mandata in gas.


«Il Sole 24 Ore», 15 gennaio 2012

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