2.7.16

Storie della non-violenza. Un libro di Domenico Losurdo (S.L.L.)

È già presente in questo blog una parte del testo che segue, un'ampia recensione di un bel libro di Lo Surdo sulla “non-violenza”, scritta per “Umbria Contemporanea”, la rivista fondata da Lello Rossi. 
Qui riproduco integralmente quel mio lavoro di alcuni anni fa, con qualche correzione meramente formale. (S.L.L.)

All’inizio del 2010 Laterza ha dato alle stampe La non-violenza. Una storia fuori dal mito. Ne è autore Domenico Losurdo, uno studioso di confine, il quale, in quanto accademico, ha avuto e conserva ruoli ufficiali nella struttura universitaria, ma da almeno un decennio si propone di sottrarre alla generalizzata mitizzazione e mistificazione alcuni elementi costitutivi del “pensiero unico” post-Ottantanove.
Da questa ricerca controcorrente sono usciti fuori alcuni testi tra storia, politica e filosofia, tutti molto discussi: una “controstoria” del liberalismo oggi dominante, una rivisitazione apologetica della “leggenda nera” di Stalin e da ultimo il libro sulla non-violenza che ne ricostruisce fondamenti e vicende e ne contesta l’odierna canonizzazione acritica e strumentalizzazione imperialistica.
L’approccio scelto da Losurdo, per affrontare la tradizione politica non-violenta, il suo stratificato edificarsi nel tempo e il suo sostanziale esaurirsi (almeno ai suoi occhi), connette l’aspetto storico-politico a quello storico-filosofico, utilizzando spesso il metodo comparatistico come strumento forte di valutazione.

Tre grandi racconti
Lo studioso è del tutto consapevole - e del fatto dà conto ai lettori - che sono molte le scaturigini e le motivazioni delle teorie e delle pratiche della non-violenza e che esse affondano le radici tanto nella dimensione religiosa dell’esistenza quanto nel più laicistico degli utilitarismi; e tuttavia tenta di ricondurre a unità la complessità, fissando punti di partenza e approdi.
Alle origini della non-violenza come costruzione politica Losurdo pone il tema della pace universale. Esso matura come esigenza fin dal Settecento illuministico, quando trova espressione compiuta nel tendenziale repubblicanesimo e nel federalismo universalistico di Kant; non manca poi di voci autorevoli (da Tolstoj a Freud) tra Ottocento e Novecento; giunge infine a maturità nel cuore del “secolo breve”, nel corso del quale la condizione atomica e lo sviluppo tecnologico esauriscono definitivamente la retorica della guerra “bella” ed “educativa”.
Schematicamente Losurdo individua tre progetti o “grandi racconti” (il che – ovviamente - non nega interrelazioni e contaminazioni tra essi) che aspirano a chiudere definitivamente il tempo della guerra tra gli Stati: quello rivoluzionario che prende origine dal giacobinismo e attraverso il movimento operaio e il marxismo trova il suo apogeo nel leninismo; quello non-violento che tenta di eliminare in radice la possibilità della guerra; quello dell’interventismo “democratico” che punta sulla diffusione del modello occidentale di libertà politica come antidoto al dispotismo bellicista.
L’origine di quest’ultimo “pacifismo”, più ideologico che effettuale, è intravista da Losurdo nella Prima guerra mondiale, quando, nel campo dell’Intesa, intellettuali di sicura fede democratica come l’italiano Gaetano Salvemini giungono a invocare la guerra per “uccidere la guerra” e non esitano a chiedere per questo scopo nobile il sacrificio della vita. Paradossale è che, da una parte, come bersaglio di questa guerra fosse indicata la Germania militarista e il suo espansionismo, mentre la Germania a sua volta giustificava la guerra con la necessità di colpire l’Orso dell’Est, la Russia zarista fonte di autocratica oppressione e di ottusa violenza. A consacrare l’ideologia della “pace definitiva” come prodotto della diffusione nel mondo della “libertà politica” fu poi il presidente Usa Wilson, quando nel 1917 il grande paese d’Oltreatlantico, rompendo con la tradizionale dottrina Monroe, entrò direttamente nella Grande Guerra europea.
Si tratta per Losurdo dell’unica fra le tre opzioni rimasta in campo, seppure con una forte carica di mistificazione. Gli Usa, infatti, tendono oggi a presentarsi come una sorta di “nazione eletta”, che spende sé stessa e le sue risorse per affermare ovunque la democrazia rappresentativa. La prassi e l’ideologia dell’impero ha finito, peraltro, con l’inglobare la stessa non-violenza come metodo di lotta, trasformandola in strumento di acquisizione all’Occidente capitalistico di nuovi spazi di libera espansione.
Contraddizioni radicali non erano mancate anche nel campo dei rivoluzionari socialisti, la cui proposta di pace universale si reggeva sull’internazionalismo dei proletari e delle classi sociali sfruttate e oppresse. Losurdo indica due nodi storici che misero in crisi lo schema: quello delle guerre coloniali cui una parte del socialismo europeo guardò con simpatia in quanto guerre di “civilizzazione”; il primo conflitto mondiale, che spaccava l’Internazionale e scuoteva le coscienze di capi e militanti, divisi tra un antimilitarismo spinto sino al disfattismo e la “nazionalizzazione” armata del movimento operaio.
Il racconto di Losurdo parte dall’America dell’Ottocento, ove i primi movimenti impegnati a costruire ordinamenti civili a base non-violenta risentono di una evidente ispirazione religiosa ed esprimono una forte caratterizzazione riformatrice. Essi rompono, per esempio, con l’idea della guerra santa, caratteristica di tanto protestantesimo nordamericano che, attraverso la predicazione del Vecchio Testamento, giustificava non solo i conflitti con Francia e Inghilterra, ma anche la sottomissione dei pellerossa e la schiavitù, in quanto prosecuzione dello stato di guerra. È soprattutto la Guerra civile americana, lunga, dura e piena di lutti, a indurre contraddizioni e ritrattazioni. L’uno dopo l’altro, Stearns e Garrison, tra i capi più prestigiosi del movimento non violento e abolizionista, accettano la guerra come inevitabile; e altrettanto fa Thoureau, il profeta della “disobbedienza civile”.
Il libro poi segue, nei rapporti reciproci, il movimento socialista, Gandhi e Tolstoj, l’anticolonialismo, i dibattiti intellettuali intorno alle due guerre mondiali, Martin Luther King. Il secondo dopoguerra occidentale è anche il tempo della “canonizzazione” della non-violenza e della sua progressiva strumentalizzazione, che a Losurdo sembra evidente sia nella vicenda tibetana sia in quella delle cosiddette rivoluzioni colorate dell’Est europeo.

Il gigante Gandhi
Il passaggio chiave è individuato nella figura di Gandhi, la cui mitizzata intransigenza non-violenta esce fortemente ridimensionata dall’ampia ricognizione su tutta la sua vicenda politica. All’originario rifiuto morale della guerra e della violenza, sempre rivendicato, infatti corrisponde in Gandhi un comportamento politico spregiudicato, con molte svolte, il cui obiettivo è, in un primo tempo, l’elevazione degli indiani al livello degli inglesi nel grande impero coloniale britannico, al di sopra delle altre razze. In questa luce si fa reclutatore di volontari indiani per la guerra contro i boeri in Sud Africa: l’obiettivo è “partire e morire per la causa dell’India e dell’Impero”. Di questa partecipazione Gandhi sottolinea il valore pedagogico: la guerra, infatti, trasformerebbe degli uomini rozzi e indocili in persone animate da gentilezza e senso del dovere. Nel 1906 Gandhi cerca di favorire la formazione di un corpo militare indiano che intervenga repressione degli zulù. Manterrà questo atteggiamento collaborativo a lungo, per tutta la durata della Grande Guerra.
La tesi di Losurdo è che, fino a quel tempo, il campione della non-violenza è semmai Tolstoj, con cui Gandhi scambia alcune lettere, ma da cui è distante per la mancata condanna dei massacri perpetrati dai governi europei nelle loro politiche imperialistiche. È dopo il massacro di Amritsar, messo in atto nel 1919 contro gli indiani dal potere coloniale inglese, che Gandhi definitivamente abbandona l’aspirazione alla cooptazione e tende piuttosto a collocare l’India nel processo più generale di emancipazione del mondo dal colonialismo occidentale.
Losurdo non cessa tuttavia di mettere in fila contraddizioni, cadute e debolezze cui, anche dopo, il Mahatma va incontro, dalla sua simpatia per il fascismo italiano al suo mettere sullo stesso piano Hitler e Churchill, fino all’autoritarismo violento e antifemminista che in un alcune occasioni manifesta nella vita quotidiana della sua comunità. Lo studioso italiano sembra quasi aver assunto il ruolo di “avvocato del diavolo” nei processo di beatificazione di Gandhi, ma, se nel libro costui subisce un ridimensionamento come “non-violento”, di sicuro giganteggia come leader politico nazionale, artefice dell’indipendenza dell’India, e di lui vengono valorizzate le capacità di costruzione culturale e ideologica e di direzione politica. Tra le sue intuizioni ideologiche, politiche e propagandistiche Losurdo ricorda la rivendicazione del primato morale dell’India e dell’Asia gentile sulla barbara Europa guerriera e conquistatrice, l’utilizzazione efficace di motivi ed emozionalità religiose, la lotta non-violenta come produttrice d’indignazione e di consenso perfino tra i “nemici”. In questa chiave anticolonialista, peculiarmente asiatica, Losurdo può mettere a confronto “il partito di Gandhi” e “il partito di Lenin” (meglio si direbbe dei “leninisti” Mao Tse Tung e Ho Chi Minh), trovandovi più analogie che differenze.
Il giganteggiare di Gandhi si ricava del resto dall’esemplarità che assume la sua lotta in tutto il mondo. Con il suo pensiero e la sua azione si confrontano infatti, anche criticamente, alcune tra le più grandi figure dell’intellettualità europea, stimolate dalla coscienza religiosa e attratte dalla prospettiva della non-violenza: Reinhold Niebuhr, Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil e Aldo Capitini. E “Gandhi nero” è con buone ragioni denominato, anche da Losurdo, Martin Luther King.
Anche King, come un tempo il Mahatma, parte dalla tentazione di una cooptazione degli afroamericani, a cominciare dalle loro élite, nel potere bianco degli Usa e anche la sua storia gronda lacrime e sangue e vive di contraddizioni laceranti. Cartina di tornasole è questa volta la “sporca guerra” del Vietnam, intorno a cui matura la presa di coscienza dell’impossibilità di una partecipazione al sistema Usa così com’era, connessa peraltro al maturare nell’area della rivolta afroamericana del sogno “terzomondista”.

Il canone non-violento
Nella lettura di Losurdo il partito di Gandhi non è affatto opposto al partito di Mao e di Ho Chi Minh; e non lo è anche perché i due “leninisti” asiatici sono tutt’altro che fautori della “violenza rigeneratrice”. In particolare Ho, in fasi importanti della lotta di liberazione, agli occhi dell’amministrazione coloniale francese, tende ad assumere i tratti di un “Gandhi indocinese”, per la sua ripugnanza, insieme istintiva e meditata, verso soluzioni di forza.
È piuttosto l’Occidente liberale a santificare e neutralizzare Gandhi in tempi più recenti, a trasformale la sua “non-violenza” in un moderatismo da contrapporre come antitesi ai radicali Mao, Ho Chi Minh, Che Guevara o Arafat. Analogamente la vulgata del liberalismo celebrerà il primo King, quello che aspira a rendere anche i neri partecipi del “sogno americano”, e rimuove le successive prese di posizione del leader afroamericano che connette il razzismo bianco degli Usa con la guerra neocolonialista del Vietnam e guarda con ammirazione a Du Bois, l’intellettuale radicale bianco, il genio che aveva scelto di essere comunista.
Il passo successivo di questa campagna di acquisizione della non-violenza all’Occidente liberale è quella che a Losurdo sembra soprattutto una invenzione mediatica in funzione anticinese: l’immagine del Dalai Lama come nuovo Gandhi e dei tibetani come “popolo più pacifico del mondo”. Con una serie di documenti Losurdo rileva il feroce oscurantismo dell’ideologia e della pratica lamaista e l’insanabile conflitto tra la propaganda non-violenta e la realtà di una insurrezione, quella del 1959, condotta addirittura con truppe suicide.
A partire dal caso tibetano il Losurdo costruisce uno schema nel quale la “non-violenza” diventa schermo e arma di propaganda per la sovversione in stati e paesi che si sottraggono all’impero occidentale e le stesse forme di lotta non-violente, marce, digiuni, boicottaggi, sono forme di una guerra psicologica che non esclude, anzi in diversi casi richiede l’intervento militare e la carneficina del bombardamento con le armi più sofisticate. Questa lettura subisce perfino una inarcatura complottista quando al Losurdo pare di vedere lo zampino di grandi strutture spionistico-militari dell’Occidente dietro le cosiddette Rivoluzioni colorate dell’Est europeo, per cui ipotizza lotte non-violente teleguidate e mediaticamente enfatizzate per preparare “guerre umanitarie” con bombardamenti di sostegno a opposizioni amiche o addirittura con truppe d’occupazione. Paradossalmente questa interpretazione di recenti vicende trova argomenti oggi più che nel momento dell’uscita del volume: le vicende libiche e il loro macabro epilogo sembrano corrispondere allo schema di Losurdo. Le manifestazioni non-violente (o come tali presentate) represse dal regime nazionalista di Gheddafi, lette a posteriori, appaiono lo schermo di un’azione militare di gruppi filooccidentali, armatissimi e molto addestrati, cui i cruenti bombardamenti spianano la via verso una violentissima vittoria.

I mezzi e i fini
Saggiamente Losurdo ridimensiona la critica ricorrentemente rivolta a Marx con toni d’accusa di considerare la violenza “levatrice della storia”: attraverso opportune comparazioni, utili a stabilire la portata di quanto viene affermato, documenta come le frasi incriminate siano, nella maggior parte dei casi, costatazioni su eventi del passato e come sia quasi assente in Marx o in Engels la retorica sulla forza catartica della guerra, caratteristica di alcuni loro contemporanei e tanti posteri.
Il volume sulla non-violenza fa di più: mostra anche, attraverso esempi significativi, da Turati a Liebknecht , da Gramsci ai bolscevichi, come la discussione su violenza e non-violenza si innesti nella storia del socialismo europeo, ancora prima che Walter Benjamin nel 1921 impegni la filosofia nella “critica della violenza” anche “a fini giusti”. Il dubbio che i mezzi possano corrompere i fini e deviare dai loro obiettivi i processi di liberazione accompagna la storia del movimento operaio europeo sia nell’Ottocento che nel Novecento e si esprime non solo nel pacifismo e nell’antimilitarismo ma anche nella scelta delle forme di lotta. Non-violenta al massimo grado, anche nella sua espressione simbolica e metaforica (“incrociare le braccia”), è del resto la principale forma di lotta che, superate le tentazioni luddiste, il movimento operaio scelse: lo sciopero. La vicenda del “socialismo reale”, come di tante rivoluzioni anticoloniali “violente”, sembra peraltro aver dimostrato che le rivoluzioni armate tendono a riprodurre forme di oppressione non solo per effetto dell’azione di nemici esterni, ma per fattori collegati alla loro militarizzazione e gerarchizzazione.
Il libro di Losurdo sembra concludere che né l’opzione rivoluzionaria né la scelta non-violenta, la quale quasi mai del resto riesce ad essere attuata fino in fondo, garantiscono da fallimenti, tragedie e tradimenti. Tra questi tradimenti indica il possibile (e relativamente facile) assoggettamento della critica della violenza alla pretesa tuttora viva dell’Occidente “di ergersi a maestro e signore del globo”.

Capitini e la sua eredità
Non è grande lo spazio che Losurdo dedica alla tradizione italiana della “non-violenza”. Giustamente neppure un accenno al pannellismo e al suo “partito radicale transnazionale non-violento”, considerati organici al sistema politico ed economico vigente, sebbene abbiano adottato Gandhi come simbolo e praticato forme di lotta come i digiuni. In più passaggi del resto lo studioso valuta le pratiche di questo tipo, non infrequenti nei paesi occidentali, come un uso deviante della non-violenza, come azioni che ribadiscono la violenza del potere e caso mai accentuano l’elemento gandhiano di pressione morale con l’uso abile delle comunicazioni di massa.
Solo poche pagine sono dedicate da Losurdo all’elaborazione di Aldo Capitini, ma sufficienti a rilevarne taluni aspetti di originalità. Di Capitini evidenzia il legame con il Mahatma e il rifiuto di una non-violenza che metta sullo stesso piano oppressi ed oppressori e si ricorda la simpatia per il socialismo di Marx e per la religiosità popolare di Tolstoj.
Losurdo accenna peraltro all’ambizioso progetto capitiniano di costituire una “Internazionale non-violenta”, sulla scia dell’“Internazionale dei Lavoratori”, rivendicando l’eredità del movimento operaio e socialista senza tuttavia cadere nelle compromissioni di quello che Capitini chiama “riformismo di tipo socialdemocratico”. Il “liberalsocialismo” cui il pensatore perugino aspira non pare allo studioso una terza via, mediana, tra capitalismo e socialismo, ma un progetto di società originale, che si propone di ereditare sia le conquiste civili e democratiche della Rivoluzione francese sia quelle della “rivoluzione collettivistica russa”.
Il duro politicismo rende Losurdo poco ricettivo verso il movimentismo e il “basismo” che caratterizza l’esperienza capitiniana. In essa, infatti, non si può separare la “non-violenza” come mezzo dalla “non-violenza” come fine, e cioè da una “rivoluzione” capace di instaurare un nuovo potere diffuso dal basso, l’“onnicrazia” o “potere di tutti”. Il recente volume sulla non-violenza tace pertanto della esperienza dei Cos (i capitiniani Centri di orientamento sociale) e poco dice dei Cor, strumento di una parallela rivoluzione religiosa non confessionale che alimenta la rivoluzione politica e se ne alimenta.
Su questa linea Capitini aspirava esplicitamente a farsi promotore di una corrente nuova di pensiero e di azione, non riconducibile a nessuna delle sinistre tradizionali, né borghesi né operaie. Credo che possa valere come esempio l’incipit di un documento del 1963 pubblicato postumo a cura di Goffredo Fofi da “Linea d’ombra” n.20 del 1988 con il titolo Per una corrente rivoluzionaria nonviolenta: “La situazione politica italiana presenta un vuoto rivoluzionario: i partiti stanno o su posizioni conservatrici o su posizioni riformistiche, prive di tensione e di forza educatrice e propulsiva nelle moltitudini. Così si va perdendo anche l’esatta prospettiva che pone come finalità decisiva della lotta politica il superamento del capitalismo, dell’imperialismo, dell’autoritarismo. Vi sono tuttavia delle minoranze che vedono chiaro, ma tali minoranze devono giungere ad un’azione organica nella situazione italiana per cui, da una società dominata da pochi si passi ad una società di tutti nel campo dell’economia, della libertà, della cultura”.
In un passaggio cruciale del suo argomentare, un paragrafo dal titolo Una svolta nella storia della non violenza (pp.239-40), Losurdo ricorda la profonda identificazione di Gandhi con il movimento anticoloniale: il leader indiano, proprio nello stesso momento in cui denuncia la persecuzione antiebraica e la nazistica “notte dei cristalli”, non esita infatti a condannare la colonizzazione sionista in Palestina e a svolgere considerazioni che ne svelano un aspetto di conquista, di occupazione. Losurdo cita poi il sostegno di King ai vietnamiti e rammenta la scelta di campo di Capitini contro il colonialismo, che nel 1963 – in pieno kennedismo - denunciava il subentrare dell’imperialismo americano a quelli europei nel dominio sui paesi non sviluppati. L’ipotesi dello studioso è che oggi una parte importante della non-violenza abbia tradito le premesse anticolonialiste e antimperialiste, che legano Gandhi a Martin Luther King e a Capitini: ci sarebbe una sorta di “internazionale della non-violenza” che va di pari passo “con la celebrazione di quell’Occidente, che si erge a custode della coscienza morale dell’umanità e si ritiene pertanto autorizzato a suscitare destabilizzazioni e colpi di stato, nonché embarghi e guerre umanitarie in tutto il mondo”. Dell’eredità di Gandhi in questo contesto rimarrebbero solo “le tecniche di produzione dell’indignazione morale”, mentre il suo Satyagraha si sarebbe “rovesciato nel suo contrario: da forza della verità … in un’inedita e temibile forza di manipolazione”.
Il mio timore è che possa accadere altrettanto con Capitini, e che la sua immagine venga strumentalizzata a pro di un “interventismo umanitario”, che facilmente dimentica come dietro ai conflitti ci siano spesso corposi interessi occidentali. Alcuni tentativi di “pacificazione” e ricostruzione democratica in questi ultimi anni – nota giustamente Losurdo - sono stati anche per questo disastrosi. Forse, nell’assumere la lezione di Capitini, non andrebbe dimenticato che – come ha acutamente scritto Binni – non era affatto un “pacifista innocuo” e che la rivoluzione a tutto campo che predicava (religiosa e morale oltre che politica) era sì fondata sulla non-violenza, ma prevedeva un sovvertimento radicale delle gerarchie razziali, economiche e sociali del mondo intero.

Nota biografica
Salvatore Lo Leggio è nato a Campobello di Licata, nell’Agrigentino, nel 1948. Insegnante di Storia e Letterature nelle scuole medie superiori, vive in Umbria dal 1978. Militante della sinistra, iscritto al Pci fino al suo scioglimento, è dal 1995 nella redazione di “micropolis”, il mensile umbro di cui è stato coordinatore per molti anni. Vi ha scritto di politica, di storia e di letteratura. Ha pubblicato per Giada nel 2000 Il secolo morente. Ovvero la fine delle lezioni, sulla letteratura europea del Novecento, e nel 2001 Cronache giubilari, uno sguardo anticlericale sulla Chiesa cattolica in Italia e in Umbria nell’Anno Santo del millennio.


“Umbria Contemporanea”, n.16-17, dicembre 2011   

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