24.8.16

Il «cunto» e l'«opra dei pupi» (Giovanni Vacca)

In Mimmo Cuticchio (un sessantottenne nato a Gela) si fondono due tradizioni: quella dell' “opra dei pupi”, che rappresentava con le tipiche marionette siciliane (“pupi”, appunto) episodi del ciclo carolingio, e quella dei “cuntastorie”, che nei loro “cunti” raccontavano ritmicamente le stesse vicende, accompagnandosi con la mimica e battendo un bastone. Cuticchio, erede di una delle più famose famiglie di pupari, ha attraverso questa contaminazione rinnovato l'arte dei suoi avi, con un risultato pregevole. L'etnomusicologo Giovanni Vacca, nell'articolo che segue, scritto per “alias” a correde di un articolo sul “puparo cuntista”, fissa le caratteristiche di codeste popolari forme d'arte. (S.L.L.)    
Le sei file di posti esclusivamente riservati ai bambini per lo spettacolo di pupi di Mimmo Cuticchio, per quattro giorni all’Auditorium di Roma subito dopo Natale, fanno davvero sembrare che, come per fiabe e racconti, l’infanzia sia il destinatario naturale del teatro di figura, con le sue storie fantastiche e i suoi pupi che volteggiano senza affettazione nello spazio. Ma non è sempre stato così: l’Opera dei Pupi è stata a lungo non solo uno spettacolo, e un rito, per le classi subalterne siciliane fino all’epoca del boom economico ma anche l’espressione formalizzata di un codice di comportamento, la riattivazione performativa di veri e propri archetipi mitici celati sotto le vesti dei prodi paladini di Francia, difensori dell’Europa contro la minaccia musulmana.
Strettamente intrecciata all’opera dei pupi è poi il «cunto», il racconto mimato e ritmato dei cicli eroici carolingi che il «cuntista» rievoca con un bastone o una spada. Entrambe queste manifestazioni della cultura teatrale popolare hanno dunque alla loro base una forte componente ritmica che le rende assolutamente particolari e inconfondibili: un ritmo che sembra attraversare l’intera figura del performer, dalla spada che volteggia al piede che batte, nel caso del «cuntista», o dominarlo completamente, nel caso dell’opera, perché costringe il manovratore («maniante») a piegarsi ai movimenti meccanici del pupo e a fare corpo con lui. Un ritmo che ipnotizza completamente lo spettatore, perché dal corpo si estende alla voce, canalizzandosi nella sillabazione spezzata del «cuntista» o nelle scansioni artificiali dei «manianti», la cui fonazione è deformata dallo sforzo a cui il corpo stesso è sottoposto.
A partire da quella «psicodinamica» propria delle culture orali, che proprio al ritmo riservano un ruolo centrale nella prassi comunicazionale, sia il «cunto» che l’opera dei pupi si strutturarono nella loro fisionomia in quell’Ottocento in cui prese forma buona parte della cultura popolare italiana per come oggi la conosciamo; e se per quanto riguarda il «cunto» gli studi più recenti hanno definitivamente escluso una continuità di forme e contenuti da aedi e rapsodi dell’antichità, l’uso di un bastone e del battito del piede per accentuare la sillabazione di una performance vocale è certamente presente anche in altri luoghi: nelle Midlands dell’Inghilterra ad esempio, dove ancora fino agli anni Sessanta del secolo scorso, come testimoniano gli storici del canto popolare anglosassone, i vecchi pastori cantavano le ballate tradizionali sottolineando le note con colpi di bastone e pestando violentemente il suolo con i piedi alla fine dei versi. Il «cunto», però, non è cantato (e quindi i «cuntisti» o «cuntastorie» non sono da confondere con i «cantastorie», che pure in Sicilia hanno una nobile storia): è una recitazione in versi che mette in scena, in un’alternanza di momenti di narrazione distesa e parossistica (in cui si evoca il fragore delle battaglie agitando la spada e battendo i piedi), le gesta di Carlo Magno e di Orlando, di Rinaldo e di Gano di Maganza.
Le storie narrate nel «cunto» sono le stesse dell’opera dei pupi, che con esso è dunque per molti versi intrecciata, della quale però si annoverano più «tradizioni» (quella palermitana, quella catanese e poi quella pugliese e napoletana per non parlare del teatro delle marionette, presente in moltissimi paesi) che derivano dai cicli epici medievali filtrati da quella sensibilità romantica che li riportò in auge nell’Ottocento e li fece rifluire in ambito subalterno tramite l’editoria popolare e il melodramma. In comune, «cunto» e opera, spettacoli popolari spesso mobili, avevano anche l’uso di eseguire le vicende in forma ciclica, cioè a «puntate», e di interrompere il racconto in un momento critico: nell’opera, infatti, lo spettacolo si concludeva immancabilmente con il «perdomani», un pupo che faceva il riassunto dell’episodio che si sarebbe svolto il giorno dopo in modo da assicurarsi il pubblico per la serata successiva.
Quello dell’opera dei pupi è un mondo ormai estinto, connotato da una forte componente di ritualità con una partecipazione popolare ad alto tasso emotivo, un po’ come accadeva nella «sceneggiata» napoletana e dove il pubblico (che tra l’altro conosceva perfettamente le storie, con le loro complesse vicende e le loro intricate genealogie, ed esercitava quindi anche una sorta di funzione di controllo sul rispetto della tradizione) parteggiava per alcuni personaggi fino a intervenire direttamente durante la rappresentazione: un mondo dove gli intrecci drammatici erano compensati da inserimenti comici (i pupi «da farsa») e dove la lentezza ieratica dei gesti era la condizione necessaria per attivare quella sospensione dal tempo profano e quell’attivazione di un tempo mitico che è propria della sfera sacrale. Non sono poche, infatti, le risonanze mitologiche presenti nell’opera dei pupi: per esempio nel personaggio di Orlando, «eroe solare» che viene tuttora fatto morire e poi nascere nel periodo natalizio per consentire al ciclo di ricomunicare con il nuovo anno e che, nella vulgata italiana popolare della Chanson de Roland, viene per tradizione partorito in una grotta, a Sutri, proprio dove c’è ancora un famoso santuario del dio Mitra (il dio sole che, come Cristo, nacque in una grotta e la cui festa di rinascita fu sostituita dalla cristianità con il natale).O come in Ferraù, che, come Achille, è un guerriero invincibile perché invulnerabile, tranne che in un solo punto, l’ombelico.
Uno spettacolo, quello dei pupi, fatto dei bagliori delle corazze lucide dei guerrieri, esibite nei numerosi «consigli», quando cioè appaiono schierati in fila, e del rumore e del ritmo, quasi da danza, dei combattimenti: uno spettacolo, insomma, a forte carattere «formulaico», vale a dire con una serie di scene fisse («consigli» e «battaglie» sono scene tipiche delle letterature epiche) attorno alle quali si organizza una narrazione strutturata su dei canovacci, proprio come accade per tanta narrativa appartenente alla sfera dell’oralità. Ma anche uno spettacolo di colori, con pupi, nonché draghi, mostri e sirene, dipinti con accuratezza nei particolari, e «cartelloni», quegli antesignani dei manifesti pubblicitari che riassumevano le vicende dell’episodio in scena con la stessa tecnica pittorica degli ex voto su legno che affollano le chiesette del mondo contadino meridionale.
L’opera dei pupi ha avuto una forte influenza sul costume popolare e ha lasciato segni profondi anche nei linguaggi regionali, se tuttora in Sicilia si dice «Rinardo di Montarbanu» per designare una persona che si vanta in maniera esagerata o, a Napoli, «avere le orecchie di Pulicane», per indicare qualcuno che ci sente fin troppo bene, in riferimento a un personaggio con questo nome, mezzo uomo e mezzo cane e dalle lunghe orecchie. Ma la storia dell’opera dei pupi è anche una storia di razionalizzazione produttiva, perché l’originaria orchestrina che accompagnava lo spettacolo, composta in genere da tre chitarre, mandolino e violino, fu sostituita, appena possibile, da un pianino meccanico capace di eseguire soltanto pochi motivi (la «battaglia lenta» e quella «spietata», la marcia reale, la marcia alla turca e il «lamento») con i quali bisognava accompagnare diverse scene, magari aumentando o diminuendo la velocità.
Nonostante tutte le loro componenti narrative e scenografiche, però, sia il cunto che l’opera dei pupi restano eventi teatrali sostanzialmente «riassunti» nel ritmo, che continua a scandirne l’esistenza scenica e in cui risiede gran parte del loro fascino: un ritmo «antibiologico» e incantatorio, che nel «cunto» dischiude alla voce l’astrazione fonetica e nei pupi regala quella leggerezza che sembra ignorare la forza di gravità e che, come intuì lo scrittore tedesco Heinrich Von Kleist, permette di vincere definitivamente, almeno nell’illusione, quella sorda resistenza che il corpo umano impone a ogni movimento e a ogni verticalità.

Alias il manifesto, 20 febbraio 2009

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