30.8.16

"L'intellettuale è finito". Alberto Asor Rosa per un altro Occidente (Pasquale Voza)

Stimolata lucidamente dalle domande dell'intervistatrice, Simonetta Fiori, l'autobiografia politico-intellettuale di Asor Rosa (Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Laterza, pp. 181) si snoda lungo un asse privilegiato, vale a dire la storia degli intellettuali e dei processi culturali dagli anni Cinquanta sino all'oggi: sino cioè al «grande silenzio» degli intellettuali, dovuto alla loro ormai irreversibile estinzione, paragonabile - osserva con "drammatica" ironia lo studioso - alla estinzione dei brontosauri. La ricostruzione di questo percorso e del ruolo in esso giocato dall'autore è complessa e ricca anche di tanti episodi e momenti particolari, che spesso valgono ad illuminare efficacemente il quadro d'insieme.
Si possono individuare alcuni nodi essenziali. Il primo è quello di fondo: il decadimento dell'intellettuale occidentale, o - come viene detto spesso - del maître à penser, di una figura contraddistinta dall'intreccio di tre componenti, «pensiero forte, pensiero critico, valori». Asor Rosa mostra di non condividere la lettura che Bauman dà di tale decadimento, visto dallo studioso di origine polacca come il passaggio dalla figura dell'intellettuale «legislatore» a quella dell'intellettuale «interprete», dagli anni del secondo dopoguerra sino agli anni Settanta e alla crisi dello Stato sociale: vale a dire, come il passaggio da chi, in chiave universalistica, si riconosceva nella funzione di elaboratore di idee di promozione e di direzione di un ordine sociale "progressivo", a chi, abbandonate o dismesse le ambizioni universalistiche, mette le proprie competenze professionali al servizio della comunicazione tra soggetti sovrani e plurali, in un mix di specialismo corporativo e di cultura-spettacolo. Egli preferisce parlare, più propriamente (lungo un arco di riflessione che va da Max Weber a Bobbio), piuttosto che di intellettuale legislatore, di un intellettuale specialista, che «traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e usa queste ultime come strumento per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l'antropologia circostante».
In ogni caso, va detto che questo decadimento chiama in causa anche processi di riclassificazione dei saperi negli ambiti interagenti della tecnica e del mercato, di loro incorporazione nella macchina, entro una tendenziale, e pur ancora ricca di contraddizioni, dilatazione "totalitaria" del capitalismo post-fordista. Asor Rosa parla dell'esito attuale in termini di nuova «civiltà montante» ovvero, riprendendo una suggestiva espressione di Raffaele Simone, di «mostro mite», in cui la televisione di massa svolge il ruolo di un «potentissimo e gigantesco intellettuale collettivo». Qui, a mio avviso, andrebbe richiamata l'attenzione su due categorie "classiche" - autonomia e impegno - presenti da sempre nella riflessione asorrosiana sulla storia degli intellettuali. Secondo lo studioso, se nella realtà dell'Occidente la pratica dell'autonomia intellettuale «è stata consentita storicamente solo all'interno di una società borghese» ed è stata la più fertile di risultati, il cosiddetto impegno della cultura si è rivelato, di volta in volta, sostanzialmente povero e fallimentare e in Italia si è legato alla «anomalia» della storia italiana e, in particolare, alla «rivoluzione passiva» del Risorgimento italiano (in cui - osservava Gramsci - in assenza di una solida rivoluzione economica borghese, la rivoluzione è avvenuta nelle «superstrutture», con un impegno e un primato patologico degli intellettuali). Ora in Asor Rosa queste due categorie, pur collocate in una durata storicamente determinata, tendono sempre poi, in qualche modo, a slittare in una pronunzia (vagamente) prescrittiva e normativa: un libro classico, in questo senso, è Scrittori e popolo del 1965. A ciò si collega quella che lo studioso, nell'intervista, chiama la sua «estraneità all'autore dei Quaderni»: estraneità che lo ha portato a non interrogare fino in fondo nozioni come intellettuale organico, nazionale-popolare o popolare-nazionale (si pensi che nel libro circola, sia per mano di Simonetta Fiori che dello stesso Asor Rosa l'espressione vulgata nazional-popolare, del tutto estranea a Gramsci: e la differenza non è, ovviamente, solo grafica). Ma sarebbe anche da riflettere sull'esperienza operaista di Asor Rosa, troppo rapidamente consumatasi: egli, autodefinitosi «un trontiano critico», ripensa oggi all'operaismo come a qualcosa che ha rappresentato anche «l'idea che la classe operaia fosse il nuovo ceto dirigente, dotato di caratteristiche intellettuali più forti e più innovative rispetto alla classe sociale contro cui il movimento operaio combatteva».
Ma torniamo a quello che egli chiama «l'assoluto presente», ovvero «l'ideologia onnivora del presente», che è il punto di vista generale da cui si diparte l'intera intervista-autobiografia. Qui Asor Rosa dà vita a notazioni e spunti analitico-descrittivi assai efficaci, che mettono a fuoco, con una pronunzia sapientemente e icasticamente antropologico-letteraria, i processi, in corso da decenni, di ristrutturazione oligarchica dei poteri e di proliferazione e frammentazione corporativa e atomistica della società; e, per quanto riguarda l'Italia, riprendendo un suo articolo, Più del fascismo, uscito la scorsa estate sul manifesto, delinea i caratteri della «dittatura politico-mediatica» di Berlusconi, della «democrazia totalitaria», presente, a suo avviso, oggi in Italia.
È interessante osservare come, ad onta dell'apparenza data dalle sue formule "estreme", Asor Rosa inviti perentoriamente a non indulgere ad alcuna forma di catastrofismo e a cercare invece le «zone di resistenza» ancora presenti, che in Italia egli vede soprattutto nel mondo della scuola e della magistratura: più in generale, egli delinea il compito grandioso di «traghettare» il nucleo fondativo, il nucleo «buono» dell'Occidente («quel mix di libertà e di socialismo, di progresso e di solidarietà sociale, di rispetto delle regole e di rinnovamento politico e culturale») in un «altro Occidente». Un compito, questo del traghettamento, che si colora di forti accenti etico-antropologici: manca la politica, si sarebbe detto una volta, e forse - vincendo il pudore - varrebbe la pena riuscire a dirlo ancora, se non si vuole essere né catastrofisti né brontosauri.

Liberazione 30 settembre 2009

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