5.8.16

Un editore dell'Ottocento. Da Zanichelli lambrusco e scopone (Paolo Mauri)

Il busto dell'editore Nicola Zanichelli (1819-1894)
nel suo monumento funerario alla Certosa di Bologna
opera dello scultore Alessandro Massarenti
"Da quante notti non fo altro che lavorare, e la dolce alba mi trova a scrivere paginaccie che non finiscono mai e a rivedere, rivedere stampe! Zanichelli m' è sempre alle spalle: mi manda dietro i suoi valletti, con stamponi, da per tutto: a lezione, a desinare, alla bottiglieria, sempre Zanichelli padre, Zanichelli figli, Zanichelli garzoni. Chi mi salva da Zanichelli?".
Così, in un affettuoso sfogo epistolare, Carducci (siamo nel 1875) ricorda l'affanno con cui dovette completare le correzioni ad un suo erudito lavoro sulle poesie latine dell'Ariosto che Zanichelli (per l'appunto) doveva di lì a poco pubblicare in edizione di lusso, cento copie soltanto. Nicola Zanichelli era approdato a Bologna nel 1866, acquistando l'antica libreria Marsigli e Rocchi, sotto le logge del Pavaglione. Veniva da Modena, dove aveva un'altra libreria, ritrovo dei patrioti e degli esuli. Vi circolavano clandestinamente fogli di battaglia, altri provvedeva Zanichelli stesso a stamparli. La polizia ducale vigilava. I "birri" perquisivano gli scaffali per snidare "incendiari" volumi di versi, magari - si racconta - del povero Berchet. Con un'ordinanza della polizia ducale la libreria fu costretta a chiudere all'Ave Maria, per evitare che vi si parlasse di politica, per di più col favore delle tenebre.
Nicola, di famiglia modesta, lavorava fin da bambino. Fisicamente, dicono i contemporanei, assomigliava a Giuseppe Mazzini. Ma non era un rivoluzionario, anche se la passione politica gli procurò qualche incidente: perquisizioni, arresti, qualche breve permanenza in carcere e un po' di esilio in Toscana. E soprattutto lo spinse a farsi, lui libraio, editore. Nel 59, quando Luigi Farini era dittatore delle Romagne, non esitò a stampare, su sua richiesta, due volumi di documenti "risguardanti il governo degli Austro-Estensi in Modena, dal 1814 al 1859". Oggi, a più di centoventicinque anni di distanza, il catalogo storico della casa editrice da lui fondata, ripubblicato in questi giorni dopo l'edizione del centenario e aggiornato fino al 1939, è un vero e proprio monumento, oltre che una miniera di notizie.
Giosuè Carducci approdò a Bologna la sera del 10 novembre 1860: veniva, in diligenza, da Firenze, aveva venticinque anni. Avrebbe di lì a poco cominciato le sue lezioni all'Università. Ma, all'inizio (e non certo per colpa sua) i suoi corsi non ebbero successo. Nell'anno accademico 1861-62 ebbe sei alunni; dieci anni dopo gli iscritti al corso erano due. Furono anni di studio accanito, di infaticabili ricerche. E, naturalmente, di poesia. Vent'anni dopo le sue lezioni erano affollatissime, di studenti e di curiosi. “Non sono una primadonna, né una ballerina - si lamentava, e per tenere a bada gli estranei, annunciava: “oggi sarò pedante e noioso”. Ma i miti sono difficili da distruggere e Carducci - sul finir del secolo - era ormai un mito: intrecciato strettamente a quello del recentissimo Risorgimento, eppure temperato dalla palandrana professorale che di fatto non abbandonò mai. Carducci in sostanza cantava la Nuova Italia alla luce di quella antica: l'erudizione gli consentiva di recitare - credendoci fino in fondo - la parte del classico vivente, sconfiggendo le dolciastre ariette tardoromantiche con la proposta (anche metricamente importante) dell'ode "barbara". Un ritmo antico si rinnovava, la tradizione sposava il nuovo, ma senza ubbie, senza estremismi.
Carducci era un monumento perfettamente controllabile e anche per questo piaceva. Piaceva, intanto, al suo editore: uomo di idee liberali, ma moderato, aperto alle novità della scienza (pubblicò la prima traduzione italiana dell'Origine delle specie di Darwin nel 1864) ma diffidente - per esempio - nei confronti del decadentismo: solo nel 1892 accanto al nome di Carducci compare in catalogo quello di D'Annunzio. E pensare che D'Annunzio, proprio nella libreria Zanichelli, acquistate nel novembre del 1878 (aveva quindici anni) le Odi barbare, fu subito preso da "un'eccitazione straordinaria e febbrile: l'odio pei versi scomparve per incanto e vi subentrò la smania della poesia".
Con Zanichelli avrebbe pubblicato anche Pascoli, ma ormai il vecchio Nicola era morto (1884) e il figlio Cesare aveva preso le redini della casa. Nel 1901 l'editore tenta nuove strade: pubblica in volume unico tutte le poesie di Carducci. Era la prima volta che in Italia si proponeva un "omnibus". Il volume, di oltre mille pagine, fu tirato in cinquemila copie (costava dieci lire) e la tiratura fu esaurita in tre mesi. Un trionfo. Particolare curioso: per la carta, che doveva, data la mole, essere piuttosto fine, chiesero consiglio ad una cartiera londinese, dopo aver visto delle Bibbie inglesi stampate, appunto, su carta finissima. Fu una sorpresa sapere, da Londra, che quella carta veniva da una cartiera di Pontecchio, a pochi chilometri da Bologna: in Inghilterra ci facevano le Bibbie, in Italia le sigarette.
La libreria Zanichelli fu per Carducci una vera e propria seconda casa. Lì si riuniva il suo cenacolo letterario, lì leggeva i giornali, correggeva le bozze, vedeva gente. Gli Zanichelli lo vezzeggiavano, sbrigavano per lui fastidiose incombenze, gli regalavano (era un bibliofilo accanito) preziosi volumi. E lambrusco. Il vino entra spesso nel rapporto Carducci-Zanichelli: che del resto firmò le sue Nuove poesie (il primo volume carducciano che Zanichelli si incaricò di distribuire, insieme ad un libro che, guarda caso, parlava di vini) Enotrio Romano, da Enotria, terra del vino, che era poi l'antico nome dell'Italia. La sera, sempre in libreria, uno scopone. "Ditemi magari che non so fare versi, ma non giudicatemi un cattivo giocatore di scopone", diceva Carducci che invece era un giocatore mediocre. Lambrusco e scopone. Forse, per capire meglio quell'Italia e quegli uomini, invece di lasciarsi sopraffare dalla retorica - come ancora qualcuno che non cito continua a fare - bisognerebbe partire da lì.


“la Repubblica”, 23 giugno 1985  

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