1.9.16

Dna. La nuova frontiera del doping (Alessandro Vitale)

Eero Mäntyranta
La storia di Eero Mäntyranta, sciatore di fondo finlandese e tre volte oro olimpico negli anni Sessanta, è un vero e proprio inno alla genetica “fortunata”. Nato con una rara variante del gene Epor, Mäntyranta era in grado di produrre naturalmente un elevato numero di globuli rossi, alla base della sua straordinaria resistenza fisica durante le gare. Un caso emblematico di talento naturale scritto a chiare lettere nel Dna. E proprio sul filo dei nostri geni sembra correre la nuova frontiera del doping.
Il nome è evocativo, doping genetico, e l’idea è quella di sfruttare le varianti geniche conosciute (chiamate polimorfismi) per garantire un vantaggio all’atleta. Più globuli rossi per ossigenare al meglio i tessuti, muscoli con più fibre a contrazione rapida utili per i velocisti, o una maggiore crescita muscolare. I polimorfismi noti, in grado di influire sulla prestazione sportiva, sono circa 120. Dopo aver scelto uno o più geni di interesse, si potrebbe sostituire la sequenza di Dna originale nelle cellule con una più conveniente. Un vantaggio, in fin dei conti, anche se diverso da quello farmacologico.
Nel doping classico viene fornita dall’esterno una sostanza naturalmente prodotta dal nostro organismo: l’esempio più famoso è quello dell’eritropoietina, un ormone in grado di stimolare la produzione di globuli rossi. Con il doping genetico, invece, si cambia direttamente un gene, per modificare il comportamento della cellula e del tessuto bersaglio.
Lo spauracchio del doping genetico non è nuovo, anche se attualmente è stato solo ipotizzato a livello teorico. Il futuro, però, potrebbe non essere così lontano. L’idea arriva direttamente delle tecniche di terapia genica sviluppate in ambito clinico, con l’obiettivo di curare patologie devastanti come la distrofia muscolare di Duchenne: tramite ingegneria genetica si possono correggere le mutazioni dannose di una cellula, inserendo una copia del gene sano. Nulla, però, impedisce di pensare che la stessa tecnica possa essere impiegata anche in ambito sportivo per inserire agli atleti geni vantaggiosi.
Secondo il “Journal of Gene Medicine” sono circa un centinaio i trial clinici a scopo terapeutico che mirano a inserire fattori di crescita nel genoma umano, utili sia per la cura dei tumori che per le malattie genetiche, e gli avanzamenti tecnologici corrono in fretta. Ecco perché, a partire dal 2008, l’Agenzia Mondiale Antidoping ha inserito nella lista nera le terapie cellulari a scopo non terapeutico. Un provvedimento largamente preventivo, ma non privo di ragioni.
Il doping genetico rischia di essere una forte richiamo per gli atleti ai massimi livelli, nonostante i rischi della tecnologia. Cambiare un gene a una singola cellula, e ancora più a un intero tessuto, è infatti un’operazione complessa e non sempre prevedibile. L’aspetto più preoccupante è l’aumento del rischio di tumori: manipolando involontariamente altri geni regolatori necessari al corretto funzionamento della cellula, si rischia di causare, appunto, una crescita neoplastica. Rimane poi il grande problema della delivery, ovvero la consegna del gene alle cellule del tessuto bersaglio. Di solito si usano “involucri” di virus appositamente modificati, ma somministrazioni ripetute potrebbero comunque scatenare una reazione immunitaria diffusa. Senza contare l’immunosoppressione, necessaria affinché il virus possa agire come vettore del gene con successo, che può aumentare la suscettibilità alle infezioni e il rischio di altri tumori. Tutti motivi che hanno spinto il Comitato olimpico internazionale (Cio) a puntare moltissimo sullo sviluppo di una tecnica in grado di rilevare gli utilizzatori della terapia genica, in quanto potenziale doping genetico.
Qualche settimana fa Richard Budgett, direttore medico-scientifico dello stesso Comitato olimpico, ha annunciato ufficialmente la messa a punto di una procedura di analisi, che potrebbe già essere introdotta alle Olimpiadi di Rio 2016. Le informazioni sono ancora parziali, ma è probabile che il metodo si basi sulla tracce del virus utilizzato come vettore, la cui presenza può rimanere visibile fino a circa sei mesi da un’eventuale somministrazione. Come extrema ratio, potrebbero essere predisposte delle biopsie muscolari su cui effettuare analisi molecolari, capaci di stabilire se i geni analizzati siano originali o una copia introdotta artificialmente. Le attuali tecniche di terapia genica, infatti, sono in grado di inserire esclusivamente frammenti di Dna che risultano più corti dell’originale, e questo rappresenta una “firma” molecolare inconfondibile. 
Anche nel doping, comunque, l’imperativo non è sempre aggiungere. L’esempio migliore viene dal cosiddetto "brain doping", o doping del cervello, un campo di studio ancora incerto, sospeso tra "smart drugs" e credenze al limite della superstizione. A marzo del 2016, un gruppo di ricercatori della University of Kent in Canterbury ha presentato i suoi risultati sulla stimolazione della corteccia motoria, l’area del cervello coinvolta nella pianificazione, nel controllo e nell’esecuzione dei movimenti volontari del corpo. A un gruppo di ciclisti la corteccia motoria è stata ripetutamente stimolata con impulsi elettrici, e rispetto al gruppo di controllo si sono rilevati miglioramenti nella capacità di recupero e un aumento della soglia del dolore muscolare. Sempre uguali, invece, due indicatori come il battito cardiaco medio e la quantità di lattato presente nei muscoli. Un risultato per certi versi sorprendente: a parità stress fisico, con la stimolazione elettrica il cervello sembra percepire meno fatica e si può continuare più a lungo nell’attività sportiva.
Insomma, attorno al doping il panorama sembra variegato e complesso. L’impressione è quella di una corsa continua verso il miglioramento tecnologico, in cui a volte è difficile stabilire vincoli coerenti. Per questo motivo, un gruppo di sociologi americani ha proposto una visione del doping diametralmente opposta a quella di una pratica non etica. A patto che i rischi medici siano accettabili, sostengono, non si tratta di stabilire cosa sia vietato o meno, quanto di far sì che tutti giochino ad armi pari. Una provocazione, certo. Ma il doping è doping solo se genera vantaggi e disuguaglianze fra gli atleti: se tutti vi avessero accesso, avrebbe ancora senso considerarlo tale?

Pagina 99, 29 luglio 2016

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