20.10.16

Edoardo tragico anche se ride. Un'intervista di Enzo Biagi

Il Corriere nel 1977 pubblicò alcune interviste di Enzo Biagi ai personaggi che hanno cambiato qualcosa in Italia. Questa ad Eduardo De Filippo è tra le meglio riuscite. (S.L.L.)

DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
ROMA — Mi ha detto Fellini: «È come una sacra rappresentazione». Non c’è mai posto, bisogna prenotarsi con una settimana di anticipo, non consegnano più di cinque biglietti. La balconata è gremita di giovani che assistono, stupefatti, al prodigio.
Le voci di dentro ha quasi trent’annì: ma nel canovaccio c’è tutta l’angoscia di questo tempo, i cattivi pensieri, i sospetti. Zi’ Nicola, lo strampalato personaggio che si è chiuso in se stesso, non parla, comunica con gli altri a botti, a razzi, una specie di essenziale alfabeto Morse che non concede nulla alla divagazione; è un precursore dell’alienato, un pensatore dei « Bassi » che ignora di avere scoperto la incomunicabilità.
«Ero più forte» ricorda Eduardo. «Buttai giù il copione in diciassette ore, tutte le notti, di fila. Il dovere, sa. Filumena Marturano mi impegnò per dodici giorni. Titina diceva: — Il teatro è fatto per gli uomini, la donna è soltanto un appoggio. Feci la sorpresa: invitai tutti a un pranzetto, e lessi le mie pagine. Alla fine, silenzio. Titina mi baciò la mano e piangeva. In una stagione, 44-45, feci anche Napoli milionaria, Le bugie con le gambe lunghe, e Questi fantasmi, che restò nel cassetto per due anni. Quando si è cresciuti in palcoscenico, si è frequentato una scuola rigida, che non ti fa guardare in faccia a nessuno: si deve fare, e così è ».

La grande avventura
Il 24 maggio compirà i settantasette; ne aveva 4 quando salì per la prima volta alla ribalta, con un vestitino da cinese. Scarpetta recitava La geisha, e i «tre piccirilli sott’a nu’ umbrello», come diceva la gente, lui, con Titina e Peppino, cominciavano la loro grande avventura.
Nella leggenda c’è tutto: le fatiche dell’avanspettacolo, la fame, i contrasti e le incomprensioni, la solitudine. Poi, la rivelazione: quelle storie napoletane hanno commosso' lo spettatore in Inghilterra, nella Unione Sovietica, in Spagna, in America, in Giappone. Migliaia di repliche, milioni di copie. Perché i diseredati dei «vichi», sono come lo straccione di Chaplin: nascono dai bassifondi di Londra o dagli androni umidi di Forcella, e portano la loro malinconia, le chimere, la dolce rassegnazione per le strade del mondo, e tutti li capiscono, e anche quando l’ultimo scontro con la sventura sembra perduto, lasciano sempre una possibilità alla speranza: «S’ha da aspettà», «A’ da passà ’a nuttata», è la battuta finale di un infelice Gennaro Esposito, sulla quale cala il sipario.
Ho appuntamento all’Eliseo. Un vento gelido spazza le vie di Roma. Aspetto all'ingresso degli artisti, e chiacchiero un po' col custode: «Da quando lo conosco io» dice «è sempre andata in questo modo. Il commendatore è unico, non c'è paragone, e vengono a vedere il fenomeno. Non pare mica che reciti, non sembra che ci sia. fatica. Naturale, vero. Ma bisogna assistere alle prove, tutto pensato, calcolato, lo applauso, scatta sempre in quel momento, preciso ».
Arriva infreddolito con Isabella, la moglie. Sale le scale con energia; non pensa allo stimolatore che gli hanno messo dentro, per rianimare il cuore stanco. Soltanto Pupella Maggio gli dice: «Ciao, Eduardo», tutti gli altri salutano: «Buona sera, direttore».
Conversiamo senz’ordine, nel camerino semplice, c’è un disegno di Titina, la statuetta di un pastore ungherese, che un giovanotto straniero gli mise in mano sorridendo, e lo cacciarono, perché temevano nascondesse un coltello, poche cose per il trucco, una bottiglia di colonia.
Quando si sveste e rimane in maglietta, osservo quel torace magro, e poi il viso scavato, gli occhi spenti, gli zigomi che danno carattere a quella fisionomia essenziale, e andiamo avanti senza regola, come se riprendessimo un vecchio discorso interrotto, e io sono anche un poco commosso. Mi torna in mente il loggione del Duse, a Bologna, e Sik Sik l’artefice magico, e gli incanti della giovinezza, com’è passato in fretta.
«Io osservo, osservo continuamente» dice Eduordo, come se volesse rivelarmi il segreto della sua arte. No, non è stato facile imporre un repertorio, un modo di essere, tra le quinte e anche fuori. Faccio il nome di un amico: «Eppure» dice senza rancore «quando diedi Filumena, scrisse che era un’opera ignobile. Ma non mi sono mai arrabbiato per la critica, ho appreso molto, specialmente dagli attacchi. Renato Simoni aveva garbo. Ma adesso siamo divisi: chi recensisce da una parte, interpreti dall’altra, e in fondo si lavora tutti insieme. Una volta non era così. Qui non si vede più nessuno. Io facevo mattina a discutere con Vergani, con D’Amico. Gli artisti, quelli moderni, non parlo di me, quelli che vengono dall’Accademia, si sono tagliati anche i ponti col pubblico, sono freddi. Il saluto non è più come si usava, c’è una certa alterigia. Si ringraziava ogni fine d’atto, significava rispondere con una cortesia, senza lasciare attendere inutilmente ».

L’amarezza
Dico: l’altro giorno, ho incontrato Sandro Pertini. Gli ho chiesto: «Era peggio il ’45 o oggi?». Peggio oggi, mi ha risposto. C’è un’altra Napoli, c’è un’altra Italia? Quale? «Diversa, soprattutto perché abbiamo preso coscienza, e allora le manchevolezze mi appaiono più evidenti. Abbiamo capito. Allora si era pieni di attesa, siamo ricaduti negli stessi errori, sfiducia, disistima, dal disprezzo alla voce di dentro. Una parola buona spesa in quel momento di euforia, di fede nel futuro, ora sarebbe anacronistica, da ridere ».
In un’intervista lei ha detto: «Non me ne importa niente di sapere che cos’è l’aldilà». Perché? «Non è un fatto che mi riguarda. Sarebbe una cosa molto importante, per cui avremmo dovuto avere qualche ragguaglio, indipendentemente delle esplorazioni scientifiche e filosofiche, invece lasciamo senza che ci venga un segno qualsiasi per darci un orientamento, e allora è come spingere un muro, una piramide, si fa troppa fatica ».
Da che cosa nasce la sua amarezza? «Oggi, se dovessi prevedere qualcosa, sarei ottimista. E le dico la ragione: perché i giovani capiscono, e le generazioni non si susseguono ogni vent’anni, o quindici, ma con maggiore rapidità. Due o tre fanno già differenza. I più piccoli vengono su con idee molto avanzate, in meglio, credo. Il futuro, secondo me, verrà salvato dai ragazzini, come dice Elsa Morante, e dalle donne che, al contrario dei maschi, esercitano una politica indipendente da qualunque tradizione. Verrà il meglio, ma questa alba non mi sarà dato di vederla; ci vorrà molto tempo. Mi è stato riservato di combattere i mulini a vento, come un don Chisciotte ».
Che cosa trova nell’uomo, di migliorato, e di peggio? «Peccati intollerabili sono la vanità, l’invidia e la debolezza di carattere. Qualità buone, lo spirito di adattamento, ma non la rinuncia, la comprensione dei difetti altrui, ma non l’accettazione».
C’è chi la definisce un piccolo borghese per il suo desiderio di pulizia, di rispetto dei sentimenti. È un giudizio che la soddisfa? «Luigi Compagnone lo dice. Forse lo è lui, e allora vede così anche me. Io mi rivolgo alle masse e questo senso di nitore, questa voglia dì moralità è un’aspirazione al bene comune. Nelle mie commedie non dico mai: 'Io parlo di problemi'. Anche lui fa la stessa cosa, e lo ammiro per questo».
I suoi eroi, invece, sono quasi sempre dei falliti, degli umiliati, sul piano sociale, e degli anarchici su quello delle scelte. «E’ giusto : il seme della libertà nasce con l'uomo. Filumena Marturano, per esempio, è il simbolo dell’Italia: tre figli, tre condizioni umane. E poi la lotta: del resto, buoni non si potrà mai esserlo del tutto ».
Come nasce in lei una storia? «Chi lo sa. Dall’attenzione, dall’esperienza, dallo spirito di ricerca. Basta un’idea, non tante, e lavorarci sopra. Quando non c’è, si ricorre alle trovate».
Se dovesse spiegare a un giovane che vuol fare l’attore che cos’è il teatro, che cosa direbbe? «Se dovessi indicare un programma, suggerirei la pratica, perché il teatro porta alla vita e la vita porta al teatro. Non si possono scindere le due cose. Cerca la vita e troverai la forma, cerca la forma e troverai la morte. L'umanità, attraverso fatti che si evolvono continuamente, e che si trasformano, ci fornisce modelli che ci sorprendono sempre: nuovi, pazzi, imprevedibili, che ci danno i personaggi. Le parole cambiano, i rapporti si trasformano. Come può finire il teatro? Una volta io ho detto che fino a quando ci sarà un filo d’erba sulla terra, ce ne sarà uno finto sul palcoscenico».
Qual è il suo primo ricordo, la prima impressione, davanti a una platea? «Uno splendore abbagliante. Ero al Valle di Roma, ero piccolo e sbigottito. Mi portarono in scena da un momento all’altro: è luce, è sorpresa».
Da grande, quando decise? «Molto tardi, perché mi affannavo a convincere ali altri, che mi sconsigliavano. Piano piano cominciai a capire che quella sarebbe stata la mia passione. Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male».
Lei è religioso? «A modo mio. Io so che mi trovo qui per una ragione, e questo è già sufficiente. Se non mi è stato spiegato perché sono venuto, vuol dire che non lo devo sapere».
Quando si è sentito affaticato, e le hanno messo il pacemaker, che cosa ha pensato? Ha avuto paura? «No, no. Anzi, non volevo applicarlo, mi sembrava di forzare la mano alla natura, se me ne debbo andare, basta; poi mi abituai ad accettarlo, qualcosa da dire l’avevo ancora, infatti».
Filumena Marturano dice: «Sto piangendo. Quanto è bello piangere». E l’uomo, quando è solo o sgomento, che fa? «Lo fa troppo spesso, quindi non si può distinguere se c’è una ragione seria, o emotività e debolezza».
Cosa è stato il successo? «Un premio alla mia fatica, continua, ossessiva, da ragioniere».
C’è qualcuno fra i contemporanei che ammira? «Molti, non uno solo, e non soltanto nel mio mestiere, e fra questi Carmelo Bene, perché mi piace pure fuori, mi piacciono le sue opinioni, come si esprime, come si ribella, come si accetta. Poi Proietti, che ho stimato da quando era alle prime armi».
Anche di suo figlio Luca parlano bene. «C’è tempo per vedere se è bravo. Meno male che lo dicono gli altri. Quando nacque, Lucio Ridenti mi chiese 'Glifarai fare l’attore?'. Io risposi di sì, perché anche se non dovesse riuscire, e rimanesse soltanto un generico, il teatro gli offrirebbe sempre il modo di essere libero».
Perché l’uomo vuole recitare? «È come le scimmie che hanno il gusto dell’imitazione. Le hanno viste che si mettevano fiori e raffia addosso, e ballavano. Ma se è vanitoso, è solo uno che ha la faccia tosta di salire in alto, su delle assi inchiodate, per farsi vedere. L’artista è un'altra cosa».
Che sogni fa? «Dei palcoscenici, sempre. Inventati. Uno tutto di vetro, anche la scena di cristallo, gli attori potevano vedere lo spettacolo senza essere scorti dal pubblico. Sogno di arrivare in ritardo, stanno già per alzare il velario, tutto contribuisce a farmi rallentare, non sono truccato, non trovo il cappello, allora mi sveglio. Uno cominciava in un quartiere di Napoli, e finiva, naturalmente, in teatro. Avevo messo Titina in un camerino tutto di merletti. Una specie di delirio, forse. Quasimodo mi diceva :'Tu fai le didascalie con due o tre aggettivi. Che te ne fotte?'. Ma di questo ho vissuto».
L’altoparlante avverte: «Cinque minuti. Signori, chi è di scena?». Eduardo De Filippo si fissa nello specchio: qualche ritocco appena. In quel volto estatico ed assorto, si può specchiare tutto il dolore del mondo: «Le mie commedie sono sempre tragedie, anche quando fanno ridere».
Eduardo conosce il segreto dell’esistenza. Dice il protagonista di Gli esami non finiscono mai: «In questa vita nessuno può mettere il punto; esiste soltanto il punto e virgola. Non possiamo illuderci, dobbiamo lasciare il posto agli altri». Non sempre: lui, ormai, ne ha uno tutto per sé.


Corriere della sera, ritaglio senza data, ma 1977, prima del 24 maggio

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