19.10.16

Far follie a Carnevale voleva dire far rinascere il mondo (Alfonso M. di Nola)

Cancellare il male, riaffermare gli istinti, abolire le regole e in tal modo ricreare l'uomo e la società: erano questi gli stimoli alla base dell'antico rituale carnescialesco. Di questa complessa pienezza oggi resta ben poco. La nostra cultura ha trovato molte altre valvole di sfogo all'ansia umana.
Un antico carnevale a Roma
I grandi carnevali dei tempi nostri hanno alle spalle una cronaca antica e una densità di significati antropologici che la baldoria, la sfrenata consumazione di cibi, il mascheramento, i corsi dei carri, nel loro esplodere festoso, testimoniano soltanto come pallido residuo.
I Romani celebravano, il 17 dicembre, il pacifico e insieme tremendo dio Saturno, progenitore delle genti italiche e nume del solco e del seme. In quel giorno il mondo era capovolto, il potere era sospeso al filo di una temporanea interruzione: gli schiavi avevano il diritto di mangiare con i padroni, le case erano lasciate aperte, ogni passante poteva farsi ospitare alla mensa imbandita. La festa, però, si fondeva con l’immagine conturbante della morte, e questa impensata relazione durerà fino ai tempi nostri. Proprio nei Saturnalia, schiavi e improvvisati attori impersonavano, nelle case e nelle piazze, le larve, i nefasti fantasmi dei trapassati, vestendo di bianco, l’antico colore funebre, e coprendosi il volto con maschere. L’anno moriva, così, in un clima ambiguo e angosciante, nel quale si fondevano la gioia della libertà riconquistata per un giorno, il ritorno degli spettri e l’attesa della germinazione dei semi deposti nella terra.
Forse il Carnevale è l’erede di questo momento orgiastico delle antiche culture dalle quali veniamo, anche se si inserisce in un periodo posteriore a gennaio. Conserva, però, tutti gli aspetti di un rituale laico e religioso di distruzione e rifondazione del tempo e del ciclo annuale, e va tenuto presente che il calcolo del Capodanno non corrisponde necessariamente al 31 dicembre-1 gennaio. È Capodanno ogni tempo che apre una nuova ciclicità e ne conclude quella precedente: e la fase carnevalesca si colloca, con la sua estensione diversamente calcolata, fra il Santo Stefano e il Mercoledì delle Ceneri, a cavallo dello spirare dell’anno astronomico e dei primi annunzi di primavera. Diviene un «Capodanno» delle remote genti europee, soprattutto dei contadini e dei pastori, che riprendono la loro opera o si preparano a riprenderla dopo il sonno invernale. Tutti i cerimoniali lo qualificano come una cancellazione del male che è alle spalle, dei rischi superati, dei malesseri tormentanti dei mesi trascorsi, e insieme come un rifare mondo, uomo e società attraverso un crollo nella non storia,in una apparente e fittizia abrogazione delle regole, quasi un regredire verso il caos per ricreare l’ordine del cosmo. Intanto su questo momento è passata, in radicali influenze, la predicazione cristiana, operando profonde trasformazioni di significati, anche se al di sotto delle nuove forme irrompe l’arcaica energia repressa del calarsi nel nulla per ricostruire il tutto. Già lo stesso nome della festa ha origini incerte dopo la fase di cristianizzazione. Nei paesi sassoni la notte fra il martedì e le Ceneri si indica come Fasnacht, che meglio attesta il tripudio orgiastico che l’accompagna, poiché viene da un verbo, faseln, che significa vaneggiare, delirare e impazzire.
Ma il nostro Carnevale dei paesi latini è forse strettamente connesso agli usi comandati dalla chiesa, se è vero che il nome è l’abbreviazione di carnes levare, dalla lettura di una sequenza ad levandas carnes, «a sospendere l’uso alimentare della carne» che si leggeva nella messa della domenica antecedente Quaresima. Ma la costante presenza di carri mascherati, da Colonia a Zurigo, a Roma, a Viareggio, a Ivrea, fece pensare anche a una diversa storia del nome, che veniva riportato al cursus navalis, abbreviato poi in curnuvalis e infine carnavalis, per ricordare gli antichi riti di Dioniso e di Iside nel corso dei quali, nella più scomposta libertà, quelle divinità erano celebrate con cortei di carri a forma di nave o di aratro.
I giorni di follia coprono un arco diverso nei calendari locali, ma si interrompono, in ogni caso, al Mercoledì delle Ceneri, il giorno che, nella liturgia ecclesiastica, apre il lungo corso penitenziale verso la Pasqua di Resurrezione. Non è una festa inserita nel calendario ecclesiastico e proprio per ciò manca di una precisa limitazione di data. Cominciava, una volta, immediatamente dopo Natale, a S. Stefano, la data nella quale, secondo la consuetudine, si aprivano i grandi teatri italiani fino alla fine dell’800. Ma più frequentemente comincia nel giorno di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, o in quello della Purificazione della Vergine, le cosiddette Candelore, che la chiesa avrebbe introdotto proprio per porre freno alla licenza carnevalesca. In alcuni paesi si limita agli ultimi tre giorni o al solo martedì grasso, mentre nelle regioni di liturgia ambrosiana (Lombardia) termina la prima domenica di Quaresima, con quattro giorni in più.
Le storie locali documentano molto bene l’aspetto di ribellione controllata e di «mondo capovolto» che è il cuore del periodo carnevalesco. A Colonia era la Notte della follia delle donne e fino al XIX secolo alle donne veniva attribuita un’autorità assoluta. Che abbia, in uno dei suoi filoni, l’esaltazione della sessualità femminile repressa all’interno delle società patriarcali risulta anche dal nome che, nei paesi della Renania, assumevano i giovani questuanti del Carnevale. Si chiamavano Zimbertsburschen, quasi ragazzi che dichiaravano la loro assoluta dipendenza da Bertha o dalla Donna (Zimbert è forma dialettale di Sankta Bertha), e Bertha era il misterioso personaggio medievale presente nella tradizione delle streghe e delle orge. Il tema femminile e sessuale ha corrispondenze europee, poiché' nelle terre campane si rappresenta la Zeza, una farsa cantata nella quale il cerimoniale giocoso della morte di Carnevale esige interventi gestuali e cantati osceni e la presenza di personaggi travestiti da donna e da omosessuali.
In questa sospensione della normalità irrompe occasionalmente la violenza. Chi non ricorda gli episodi di aggressività che segnarono il Carnevale del 1975 a Roma, quando orde di giovani, profittando dei mascheramenti, assalirono donne e bambini a via Nazionale e a via Veneto? Vi sono illustri precedenti e uno studioso francese, Le Roy Ladurie, ha recentemente rievocato la storia del Carnevale di un paese del Rodano, Romans, dove nel febbraio del 1580 i partecipanti delle due rive del fiume si uccisero in uno scontro assurdo. La preoccupazione di improvvisi furori e, insieme, la sollecitudine ecclesiastica per i buoni costumi facevano scrivere a un anonimo istriano del XVII secolo, nel suo Discorso contro il Carnevale: «Ma qual notte può essere più tenebrosa et oscura... spaventevole ai buoni. Coperto l’uomo sotto una tenebrosa maschera, se apposta l’inimico spenserato, lo offende e non è conosciuto».
Ma il Carnevale è anche spensieratezza, abbandono delle quotidiane angustie, godimento di breve libertà, che si fa licenza e, insieme, riaffermazione delle istintualità cancellate. Fin dal XIV secolo i canti popolari e le ingenue rappresentazioni che accompagnavano questi giorni assunsero dignità letteraria. Conserviamo circa quattrocento canti carnascialeschi, alcuni scollacciati e decisamente immorali, e servivano tutti ad accompagnare le grandi mascherate.
Ma gli usi popolari esigono, in molte regioni, che nella festa sia inserito lo spettacolo estremamente elementare della combustione o della finta uccisione di un elemento o di un personaggio simbolico che è, insieme, il piacere alimentare dei vitti non più consumabili in Quaresima e il ciclo annuale passato. E la «morte di Carnevale», che si riduceva al bruciamento di un palo rivestito di combustibili vili (lo «scarlo») a Ivrea e nel Canavese. In un sinodo milanese del 1674 si fa espresso divieto della combustione notturna dell’effigie di Carnevale, e perciò l’uso doveva essere molto diffuso. A Napoli, nella Zeza, sono presenti un notaio e un medico, questi per accertare la morte, il primo per raccogliere il testamento. Tutto, però, si calava in una serie di comportamenti che richiamavano la morte, quasi che l’emergenza dell’istinto di vita non potesse essere disgiunta dal forte impulso freudiano di distruzione. In molte città italiane passavano cortei notturni di uomini mascherati con teschi e tibie. Ad Asti i parroci, nel 1627, erano costretti a vietare che, durante il Carnevale, si accendessero roghi su sepolcri e ci si abbandonasse a baccanali. Mangiare, consumare cibi in abbondanza è un tentativo di sanare il rischio insito nelle grandi feste che segnano una crisi del gruppo o è anche stabilire una comunione mistica con le forze potenti che emergono in tale crisi. Perciò Carnevale ha i suoi cibi «rituali»: la lasagna a Napoli, preparata secondo antiche ricette molto diverse da quelle proprie dell’area romagnola-emiliana e ricca di ricotta, salsicce, grassi, uova, pomodoro; i ravioli in Abruzzo; le castagnole, originarie delle Marche; la gallina più vecchia in Romagna, con l’intento magico di preservare dalla morte le altre galline del pollaio. Ricorre anche, come privilegiato, il sangue di maiale nel sud, per la preparazione di speciali budini dolci, di salsicce di sangue e di fritture (sanguinacci). Siamo intorno al periodo dell’uccisione dei maiali, gli animali legati all’abbondanza della casa rustica, e riappare una tradizione antichissima: la chiesa ha costantemente proibito di mangiare il sangue ed esigeva che il sangue tratto dai cerusici ai clienti ammalati fosse seppellito in terreni particolari. Ma ha pure consentito che fosse consumato sangue porcino, accettando i costumi delle plebi rurali. Pausa nel ritmo ossessionante delle quotidiane fatiche e nella invivibilità delle pressioni istituzionali, il Carnevale ebbe una funzione liberatoria nelle società che ci precedono, del resto come altre date, quella dei Santi Innocenti e dell’Epifania. Ci si imbarcava sulla nave dei folli per un viaggio più o meno lungo, il rigore dei bargelli, dei signori feudali, dei principi si dissolveva, il piacere in tutte le sue forme trionfava. E, nella notte fra il martedì e il mercoledì, il breve incanto aveva termine in un ritorno, rinfrancato, ai modelli normali.
Oggi di questa complessa pienezza di tempo stagionale resta ben poco, forse soltanto la componente giocosa. L’alternanza fra la gravità del quotidiano e la follia ha trovato nella nostra società altri sbocchi e altre valvole di sicurezza, principalmente nei fenomeni del divismo, dello sport violento, delle folle piegate da capi carismatici.

Ritaglio senza data da “Qui Touring”, mensile del TCI, probabilmente 1981

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