18.10.16

Incipit. Se il migliore fosse Snoopy? (Luciano Satta)

Nella sezione “cultura” del settimanale “L'Europeo”, nel maggio 1987, comparve un breve saggio di Giovanni Raboni sugli incipit romanzeschi, che ho già postato in questo blog. A corredo dell'articolo principale, in un “box”, Luciano Satta si produceva in un rapido sondaggio tra gli incipit dei romanzi italiani di quegli anni. L'articolo mi pare utile a restituire un po' del clima letterario in quegli anni di trapasso. (S.L.L.)

Questa vuol essere soltanto una specie di statistica; una specie perché le faranno difetto le cifre; si va a occhio e a mente. La prima impressione è che il romanzo italiano degli anni vicini a noi preferisca l'attacco di più facile immediatezza. È normale, ma poteva non esserlo, l'attacco con il verbo al passato. Fra le eccezioni, Aldo Busi della Vita standard; «Giuditta trascina una bambola di pezza e guarda fissa davanti a sé». Il passato più passato pare quello di Stanislao Nievo. Il palazzo del silenzio; «Nel 362 avanti Cristo, nel centro esatto del Foro romano dove era la palude prosciugata su cui nacque la città, si aprì una voragine».
Nell'aspetto stilistico e anche grammaticale sono da segnalare un paio di attacchi di «ripresa», ossia che sembrano richiamarsi a un già detto: con una o disgiuntiva, veramente fuori dell'ordinario, comincia la Diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino: «O quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo stesso sogno»; invece La terza donna di Montefoschi ha un avverbio interlocutorio: «Nella casa vuota, frattanto, all'incrocio delle tre strade...».
Se si toglie subito, come abbiamo detto di fare, la quindicina di libri che attaccano con il parlato, la maggioranza relativa spetta al cominciamento onirico: un sogno si è già visto in Bufalino; e pochissime parole dopo quel frattanto di Giorgio Montefoschi una donna si sveglia di soprassalto. E in un altro Busi, quello recente della Delfina bizantina, l'inizio è il seguente: «Da tempi placentari Teodora sognava palloncini colorati». Giuseppe Cassieri, Diario di un convertito: «Mi sveglio di soprassalto, come da parecchie settimane ormai, sotto l'incubo di una spada che forse appartiene all'arcangelo Michele». Claudio Marabini, Viaggio all'alba; «Aveva fatto un brutto sogno, di cui non ricordava nulla». Franco Rella, Attraverso l'ombra; «Avevo sognato».
Anche l'ambiente ferroviario è un attacco gradito. Enzo Siciliano, Diamante: «Una stazione con l'apparenza di una maceria. Sotto una pensilina, lontana da quella dove sono sceso, c'è una folla disperata». Nerino Rossi, Il ballo di Mara: «Il finestrino, da appannato che era, si era fatto rorido. La donna avvicinò il viso al vetro». Giorgio Saviane, Getsemani: «Lo vidi camminare lungo il treno. Veniva verso di me». Nel Viaggio all'alba di Marabini bisogna aspettare invece l'attacco del terzo capitolo: «Il treno si mosse lento». E tutt'altro che ferroviario nonostante il titolo, ossia statico, casalingo, cucinario, è l'attacco del Treno per Helsinki di Dacia Maraini: «Pelo una patata». Nel campo delle comunicazioni c'è solo il treno, beninteso sempre di 40 romanzi che abbiamo visto. Niente auto, niente pullman; salvo l'attacco aeronautico dell'Atlante occidentale di Daniele del Giudice: «All'inizio del campo d'erba provò il timone; poi, dondolando le ali, cominciò a rullare».

Si è visto che sono tutti attacchi piani, gradevoli, cattivanti, anche quello di Nievo che si rifa a due millenni e tre secoli e mezzo or sono, normale del resto per un romanzo archeologico, di conoscenze e di memorie. Ma se volete l'attacco più semplice di tutti, quasi elementare, proprio da tema di scuola, eccolo: «Era una bella mattina di fine novembre». Direste, non ricordandolo, che è l'attacco di uno scrittore svogliato e di un romanzetto bolso; e che l'autore forse aveva in mente il poco ispirato Snoopy della notte buia e tempestosa. Di Snoopy può darsi; in ogni modo è, tolto il prologo, l'attacco della Rosa di Eco.

EUROPEO/2 MAGGIO 1987

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