8.10.16

Romanzi. Don Abbondio e James Bond (Giuseppe Petronio)

Del recente romanzo di Renée Reggiani, Il triangolo rovesciato, ha già scritto ottimamente sull’«Unità» (13 gennaio 193) Aurelio Minonne e perciò non ritornerò sul libro, ma partirò da esso per alcune considerazioni su un genere, o sottogenere, che sta acquistando sempre più peso nelle nostre letture nonché nella produzione italiana.
Un romanzo, come ogni altra opera d’arte, può essere letto su vari piani; almeno su due. Il primo (quello della superficie, che si afferra subito da tutti) è il piano della storia raccontata: un tale che impazzisce leggendo romanzi cavallereschi e vede il mondo come è raffigurato in quei libri; due giovani contadini lombardi che impediti nel loro amore poi vincono gli ostacoli e si sposano; le vicende di una famiglia di pescatori in Sicilia; la vita di un tale a Trieste, quale lui la richiama al ricordo per ottemperare alle prescrizioni del suo psicanalista, e così via dicendo. Il secondo piano — intrecciato col primo e più interessante — è quello dei significato «vero» del libro, della visione del mondo che l'autore ha. delle sue reazioni di fronte al mondo in cui vive, delle cose dunque (del «messaggio») che vuole trasmettere: un messaggio che egli non enuncia esplicitamente, in termini solo intellettuali, come farebbe un saggista, ma che cala e nasconde in una «storia» inventata, in una «favola», in una «finzione»: tutti termini con i quali i tecnici indicano l’invenzione narrativa.
L’avventura di Don Chisciotte diventa allora una metafora che dalla satira della letteratura cavalleresca si allarga a una visione dolente del mondo intero. La storia dei due contadini lombardi, i promessi sposi manzoniani, chiude in sé la visione, tutt’insieme provvidenziale e pessimistica, che Manzoni aveva della vita umana, non solo nel Seicento italiano ma in tutte le età e in tutti i paesi. La vicenda di quella famiglia di pescatori serve a dire le reazioni di un borghese del secondo Ottocento (di quel borghese: italiano, siciliano, di origine agraria, colto, Giovanni Verga) di fronte alle devastazioni che la nascente società urbana, finanziaria. industriale produceva, a parer suo, nelle coscienze e nei comportamenti. E così via.
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C'è, però, una osservazione capitale da fare. Il deposito di materiali da cui lo scrittore attinge le sue favole per raccontarle e impregnarle di senso (farne metafore) non è casuale, ma cambia di età in età in armonia con i caratteri e le esigenze di quella società e di quella cultura.
Nel primo Ottocento, in tutta l’Europa, questo deposito è la storia. Nel secondo Ottocento questo modulo narrativo (il romanzo storico) è abbandonato, e gli si sostituisce un altro modulo: il romanzo che trae le vicende che narra dalla realtà contemporanea, da tutti gli aspetti della vita del tempo, da tutti gli strati sociali. E questo romanzo ha dietro di sé, a spiegarlo e a legittimarlo (a farne una cosa seria) tutta la cultura del tempo: il positivismo di Comte e quello di Taine, l’evoluzionismo di Darwin, la teoria dell’ereditarietà, le tesi di John Stuart Mill, il socialismo. Nonché tutta la storia travagliata del secondo Ottocento.
Più tardi, con gli anni Novanta, anche questo serbatoio è abbandonato, per un altro: quello dell’analisi dell'individuo, della introspezione, dello scavo interiore, della memoria; a caratterizzarlo basterà un particolare solo: non più «Papà Goriot», «Madame Bovary», «Nanà», «Mastro-don Gesualdo», «Daniele Cortis», ma «La coscienza di Zeno»: non la vita di un uomo ma una parte di essa e quanto e come gli si riaffaccia alla memoria richiamata dal presente.
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Ma intanto, nel secondo Ottocento, nuovi serbatoi di temi venivano scoperti, anche se per anni ignorati o trascurati dai critici: il romanzo poliziesco, per esempio che allora fu detto per lo più «giuduiziario», che nacque da ottime origini (fra i creatori vi fu Edgar Allan Poe), che rispondeva a tante esigenze dell’uomo di allora. Infatti confluivano in esso interessi o moti diversi: lo scientismo del tempo e il culto perciò della ragione raziocinante (Sherlock Holmes!); l’urbanesimo e l'industrialismo che modificavano i caratteri della delinquenza e rendevano inquieti e determinavano il bisogno di rassicurazioni (il delitto non paga); il trasferirsi dell’avventura (quanti romanzi avventurosi prima!) dalle vie maestre e marine alle grandi città, in tutti gli ambienti sociali. Così il romanzo poliziesco è stato anch’esso metafora per dire tante cose del mondo di allora e di quello posteriore e ha potuto essere emblematico dello sviluppo della civiltà americana (la San Francisco di Hammet, la Los Angeles di Chandler) o della mentalità piccolo-borghese europea negli anni Trenta (si pensi a Simenon e alla sua parentela con il cinema francese coevo).
Tanto è vero ciò, che la sua importanza fu compresa pienamente, già negli anni Venti, da sociologi, critici, scrittori; basterà, a noi italiani, ricordare certi progetti di Gadda, certe righe esemplari e illuminanti, più tardi, di Saba.
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Più tardi, a quel serbatoio se ne sono aggiunti altri: la fantascienza, cioè l’avventura avveniristica, possibile metafora anch’essa a dire mille atteggiamenti e riflessioni, e speranze e paure dell’uomo di oggi; e poi le storie di spionaggio e più tardi ancora la fantapolitica.
Un maestro del romanzo spionistico, Eric Ambler, ha scritto un saggio per collegare la nascita di questo modulo con il rivolgimento che già durante la rivoluzione francese ebbe luogo nei riguardi della spia: la Primula rossa! E può essere vero; ma è vero certamente che la diffusione del genere in questi ultimi decenni, così come la nascita e la diffusione del romanzo di fantapolitica, si intrecciano con tante caratteristiche della nostra società e con la coscienza che le masse ne hanno acquisita: il peso (in positivo e in negativo) dei servizi segreti, e la parte che hanno avuta in tante vicende di storia; gli scandali politici che si sono susseguiti in tutti i paesi; le trame rosse e nere, spesso di estensione mondiale; il terrorismo diffuso, e molti suoi gesti clamorosi; il senso, che ormai abbiamo, di poteri occulti che manovrano nell’ombra e delle cui mire noi subiamo i contraccolpi; il senso delle leggi spietate che governano questa politica e delle compromissioni con essa di tanti; il senso, ancora, di pericoli che incombono su noi e che potrebbero, un giorno, travolgerci.
Ancora una volta, il serbatoio da cui i narratori traggono le loro invenzioni non è casuale, è nel cuore della società in cui viviamo. E ciò spiega tante cose. Perché di questi generi ritenuti inferiori (para-letteratura, si diceva una volta con disprezzo) abbiano cominciato ad accorgersene anche letterati di educazione e di ambizioni alte e perché dunque questi temi stiano diventando sempre più comuni, usati da mestieranti da strapazzo e da scrittori di grido. Perché allora sia diventato impossibile catalogare, distinguere e giudicare secondo il genere.
Tanti libri «di autore», ambiziosi e «scritti bene», sono poi insignificanti, ripetizioni manieristiche di scuole ormai tramontate, privi di motivazioni serie: gusci vuoti; tanti libri, invece, polizieschi o di spionaggio o di fantascienza, sono emblematici dei problemi che oggi travagliano l’uomo e possono dirsi «di massa», nel senso che parlano a tutti.

Al principio dell’Ottocento dire che un romanzo era «storico» non significava niente dal punto di vista del valore del libro: c’erano i «Promessi sposi», c’era tanta robaccia da strapazzo. Lo stesso è oggi: dire che un romanzo è «giallo», «spionistico», «fantascientifico», «surrealistico», «avanguardia» ci chiarisce solo l’appartenenza del libro a questo o a quel sottogenere. Non ci dice niente del suo valore: intellettuale e artistico.

L'Unità, 14 maggio 1983

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