Nel 2005 l'Istituto
Gramsci della Sicilia pubblicò con il titolo Delitto alle
elezioni, una ricerca di
Calogero Giuffrida su Paolo Bongiorno, l'ultimo dei sindacalisti e
capilega uccisi in Sicilia dalla mafia nel corso della lunga
battaglia per la riforma agraria, iniziata nel 1944. La prefazione,
affidata ad Emanuele Macaluso, ricostruisce il clima complessivo di
quegli anni, gli anni del “regime democristiano”, e denuncia
l'impunità garantita agli esecutori ed ai mandanti dei delitti di
mafia, specie quando essi riguardavano i contadini che dirigevano i
movimenti di lotta. Ne propongo qui una parte. (S.L.L.)
Il bracciante assassinato
dalla mafia, in uno scenario che ricorda quello descritto da Leonardo
Sciascia nel Giorno della civetta, segretario della Camera del
Lavoro di Lucca Sicula, si chiamava Paolo Bongiorno. Era l’anno
1960 e la Sicilia sembrava che fosse uscita da quel lungo periodo,
iniziato nel 1944 - dopo i primi decreti del ministro Fausto Gullo
per una ripartizione più equa dei prodotti agricoli nei fondi
condotti a mezzadria e per l’assegnazione delle terre incolte alle
cooperative - in cui il movimento contadino con le occupazioni delle
terre tendeva a fare applicare quei decreti e a sollecitare
l’approvazione di una legge generale di riforma agraria. Nel corso
di quella lotta la mafia uccise tanti capi-lega, i cui nomi sono
ricordati da Giuffrida.
In quella zona della
Sicilia in cui si trova Lucca Sicula, nel gennaio del 1947, era stato
assassinato il segretario della Camera
del Lavoro di Sciacca, Accursio Miraglia, un combattente che ricordo
ancora bene oggi. Poco dopo il 1° maggio, a ridosso quindi di quel
20 aprile in cui si svolsero le prime elezioni regionali con un
grande successo della sinistra, fu consumata la strage di Portella
delle Ginestre.
Dicevo che nel 1960 la
Sicilia sembrava che fosse uscita da quel tunnel di morte, invece no.
Il notabilato locale, che in alcuni comuni siciliani aveva covato
odio per il movimento contadino e conviveva con la mafia, che usava
la delinquenza per servizi sporchi, non tollerava che ci fossero
uomini con la schiena dritta che rivendicavano i diritti dei
lavoratori. Spesso, con il notabilato locale convivevano marescialli
e brigadieri dei carabinieri che si sentivano onorati di essere
“amici” di un “signore”: piccoli miserabili. E coprivano
anche i crimini di quei signori.
Sul piano provinciale,
spesso, commissari di polizia (che non erano come il Montalbano di
Andrea Camilleri e delle fiction), questori e procuratori
convivevano con gli uomini del potere politico e mostravano disprezzo
sociale per il popolo che non si rassegnava ad accettare l’esistente.
Ebbene, in questo
libretto si possono leggere pagine in cui questo spaccato della
società siciliana emerge con brutale nettezza. Paolo Bongiorno,
padre di cinque figli, fu assassinato a colpi di arma da fuoco mentre
rientrava a casa. La sua vita era limpida: si svolgeva tra il lavoro
duro del bracciante, la Camera del Lavoro, la sezione comunista e la
famiglia. Tutto qui. I suoi nemici erano solo coloro che in quegli
anni non tolleravano la presenza di un uomo che ne organizzava altri
per rivendicare diritti negati e per lottare contro quel mondo che da
secoli li aveva oppressi. E quelle persone combattevano sul piano
sindacale e su quello politico, contendendo ai notabili anche la
guida del Comune, considerato da sempre un centro esclusivamente a
loro servizio.
Ma questori, carabinieri,
magistrati indirizzavano le “indagini” verso direzioni
inesistenti: fatti privati, mariti gelosi. Non trovavano nulla e
archiviavano. Così fu anche per Bongiorno. Va sempre ricordato che per nessuno
dei capi-lega uccisi fu mai trovato l’assassino e il mandante. E
quando qualcosa si muoveva in una direzione giusta, se c’era un
carabiniere, un commissario e un magistrato onesto, scrupoloso e
ligio alla legge, provvedevano i ministri, i tribunali e le Corti di
Appello a mettere il sigillo che seppelliva l’inchiesta e la
verità.
Bisognerebbe ragionare su
cosa fu la giustizia in quegli anni. Anche perché c’è chi parla
con rimpianto di come funzionava - la giustizia! - in quegli anni
rispetto alla “Toghe rosse” di oggi. Questo libretto di Giuffrida
ha un grande merito perché dice ai giovani che la memoria va tenuta
presente e che non si può costruire un domani senza capire il
passato e la storia che ancora ci condiziona. E la Sicilia oggi ha
bisogno di sapere e di capire, se vuole uscire da una condizione in
cui sembra che l’unica cosa che conti sia il potere e chi sta al
potere, e certi valori e idealità appaiono sepolte da una coltre di
opportunismo.
La mafia uccide non solo
le persone ma anche le coscienze rendendo inerte e impotente le
società.
Ricordiamo anche questo
per capire l’oggi.
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