Avevo letto duecento
pagine di Addio Volodia, il romanzo di Simone Signoret che in
settimana uscirà da Mondadori (lire 22.000), quando mi è arrivata
la notizia della sua morte. Pensavo di scrivere un articolo con
calma, fra dieci giorni, a lettura ultimata (di pagine, il libro ne
ha quasi cinquecento). Ma poi la "novità" mi ha indotto a
cambiare ritmo, e sono arrivato in fondo al libro con una curiosa
frenesia, sentendomi quasi il destinatario di una confidenza, di un
messaggio "finale" da parte dell'autrice.
Non sembri una trovata di
circostanza. L'uscita di Addio Volodia l'avevo aspettata con
ansia, come raramente può capitare in tempi come questi, in cui le
opere di narrativa inutili ci sommergono. Non solo. Desideravo
ardentemente che il romanzo fosse bello. Per cedere a simili impulsi
nei riguardi di un libro, occorre essere legati all'autore da vincoli
magari occulti o "ufficiosi", ma strettissimi. È il mio
caso.
Il tema scelto dalla
Signoret - la tragedia ebraica vista dalla Francia fra gli anni Venti
e Quaranta - mi interessava, certo, benché non potesse davvero dirsi
inedito. Mi incuriosiva, naturalmente, il fatto che a cimentarsi con
la letteratura fosse un'attrice, cioè l'esponente di una varietà
umana cui di rado si attribuiscono le capacità di pensiero ritenute
proprie di chi scrive. Ma il motivo vero di tanto entusiasmo era
personale o, direbbe un sociologo, "interpersonale": si
trattava dei rapporti antichi, intensi, fortemente venati di
emotività, che esistevano fra me e quella scrittrice. Cioè, fra un
uomo che era sui vent'anni nei primi anni Cinquanta e una donna che
proprio allora, sulla scia di un film memorabile, si convenne di
chiamare "Casco d' oro". Il fatto che la destinataria di
questi stati d'animo li ignorasse era innegabile, ma di scarsa
importanza. Poco o nulla contava che la Simone del 1985, malata,
alcolizzata e scrittrice di romanzi, non somigliasse quasi per nulla
alla splendida Simone del Casco d' oro (1951), e che anzi il
contemplare qualche sua foto recente potesse essere, per gli antichi
fans, motivo di disinganno.
Un libro è qualcosa di
diverso da un'istantanea impietosa. Può far "vedere" una
persona - la persona del suo autore - senza incrudelire sul dato
fisico, riprodurne l'essenziale salvandola dalle vendette del tempo.
È proprio ciò che io (ma forse faranno lo stesso altri miei
coetanei) sono andato a cercare nel libro della Signoret. Dire che
l'ansia sia stata soddisfatta in pieno sarebbe una bugia, e parlare
di rivelazione di una "grande scrittrice", come si è fatto
in Francia, suonerebbe come un incongruo elogio postumo.
Eppure, man mano che si
procede nella lettura, ci si accorge che fra Casco d'oro e la
scrittrice Signoret esistono legami evidenti. Per cominciare, una
certa idea di Parigi: una metropoli popolare o piccolo-borghese
suddivisa in borghi - l'indirizzo ufficiale della vicenda è: Rue de
la Mare, XX Arrondissement - con la sua vita da villaggio, i
ragazzini che giocano fra i materiali di palazzi in costruzione o fra
i detriti di case appena demolite, mentre le madri si parlano sui
ballatoi o si danno convegno in cucina. Dall'uscio di uno di questi
appartamenti sdruciti potrebbe sbucare ad un tratto la Signoret dei
bei tempi, l'eroina "positiva" di tanti film.
I ruoli adatti non le
sarebbero mancati: avrebbe potuto essere, ad esempio, una delle due
protagoniste femminili, Olga o Sonia, giovani ebree orientali che il
terrore dei pogrom ha trapiantato a Parigi. Il fondale è
appropriato, l'arco cronologico della storia - che abbraccia anni
cruciali fra il primo dopoguerra, il nascente nazismo e la democrazia
"entre deux guerres", con l'odio antiebraico e
l'engagement a sinistra, la viltà ancestrale dei piccolo-borghesi di
Francia e il rumoroso tripudio del Front Populaire, fino a un epilogo
che disperde, per un incidente casuale, i personaggi, alla vigilia di
quell'arrivo di Hiler a Parigi che ne avrebbe prodotto comunque la
morte - sembra collocarsi a metà strada fra ciò che Simone
rappresentava sullo schermo e ciò che era nella vita.
La trama del romanzo
conta meno del sottofondo che la pervade. Ed è un sottofondo
d'amarezza e di scetticismo ideologico, così somigliante agli umori
recenti della Signoret. Su tutto, domina la cieca rivalsa che la
Storia esercita ai danni delle sue vittime - per la precisione, di un
gruppo di ebrei - incarnandosi prima nella "destra" di
Hitler, poi nella "sinistra" di Stalin. In una saga così
concepita il realismo trionfa, esattamente come nei film più belli
interpretati da Simone.
Se dovessi trovargli una
parentela italiana, accosterei Addio Volodia a talune opere di
Pratolini venate di un populismo un po' naif, oppure - se penso alla
tenerezza profusa dall'autrice nel descrivere i bambini, i loro
giochi, i loro sogni - alla vena felice di un'Elsa Morante (con tanta
professionalità in meno, com'è ovvio). A lettura terminata, si deve
comunque riconoscere che il suo vero romanzo Simone l'ha scritto
senza accorgersene, a puntate, sullo schermo e nella vita; ed è
stato il pubblico, cioè noi suoi contemporanei, a collaborare
coralmente alla stesura, come capita nelle saghe autentiche.
A trent'anni (tanti ne
aveva nel 1951, quando uscì Le casque d'or) Simone era una
donna straordinariamente bella, ma non era soltanto questo. Aveva
tutti i requisiti anche letterari adatti a suggestionare un pubblico
di gusti ancora "eurocentrici", reduce appunto, di fresco,
dalla tragedia dell'Europa. Prima di tutto la sua pariginità un po'
ruspante e sottoproletaria. Poi, la naturalezza con la quale sapeva
diventare una robusta gigolette suburbana e l'autorevolezza con la
quale arbitrava i duelli al coltello fra gli uomini che la
desideravano. E ancora: la sua umanità scontrosa e intensa: chi non
ricorda l'ultima scena di Casco d'oro - e mi scuso di citare
sempre quel film, ma non a caso è diventato un simbolo - mentre
Simone assiste da una finestra alla decapitazione di Serge Reggiani,
il giovane falegname che per amor suo ha ucciso un uomo, non ha mai
visto la tenerezza e la disperazione sul volto di una donna.
L'ambiente del film era
quello del feuilleton francese di "mala". C'erano gli
apaches di periferia, le osterie ombreggiate da pergolati, i
valzer danzati nei cortili al suono dell'accordèon. E le
"partite di coltello" fra i maschi, e le gigolettes
che assistono attonite alla tragedia immancabile. Un genere che nei
suoi momenti più alti evoca la penna di un Maupassant e il pennello
di un Renoir.
Di questo impasto "primo
Novecento" Simone era il lievito. Vi si muoveva come nel proprio
elemento. I suoi ruoli migliori, e più proverbiali, oscillavano fra
la ragazza "à la suite" della malavita e la prostituta di
strada. Nella Ronde di Max Ophuls, è lei che inizia e
conclude la serie degli incontri galanti, saldando il cerchio della
storia: dal soldatino interpretato da Serge Reggiani al conte, che è
Gèrard Philipe. Dall'osè al patetico, questi copioni le
sembrano cuciti addosso. Le scivolate nel Guignol non alterano la sua
recitazione: mai agitata, affidata all' immobile intensità degli
occhi, al loro fuoco interno. Col passare degli anni l'avremmo vista
incarnarsi in figure meno luminose ma sempre memorabili: nelle vesti,
ancora, di una prostituta (ma stavolta in disarmo) nel film italiano
Adua e le compagne; in quelle di un'anziana donna di piacere
che protegge un bimbo arabo, nel film algerino La vie devant soi
(non sono un critico di cinema nè un cineasta minuzioso: cito a
memoria).
Sempre più gonfia sia
per gli anni che per il bere, ma sempre così impastata di
letteratura "alla francese" da conservare quasi intatto, ai
nostri occhi, il fascino originario. E poco importava che i suoi menu
fossero ormai prevedibili, e che uno strutturalista non avrebbe
faticato a individuarne gli ingredienti canonici: gli apaches,
i bas-fonds, la Legione straniera come rifugio finale per i
reietti; e sullo sfondo un decennio di "cinèma noir"
con i riverberi del Fronte popolare di cui Simone è un'adepta
après-la-lettre, e sul taccuino del suggeritore le battute di
dialogo inventate da Jacques Prèvert o da un suo epigono... Un
miscuglio non sempre di serie A, ma per un mostro sacro del livello
di Simone faceva lo stesso. A sollevare le vicende dai bas-fonds
anche letterari, bastava lei. E poi, fuori dal set, c'era la vita del
personaggio Signoret, trascorsa accanto a quell' altro pezzo di
Francia che è Yves Montand. In combutta con lui, la solida gigolette
diventava una donna politicamente engagèe. Insieme hanno
simboleggiato, lungo quindici anni del recente costume europeo, la
"coppia militante", il "mènage di sinistra".
A quel tempo, Parigi
esportava un' immagine di sé in cui tutto sembrava miracolosamente
conciliarsi senza stridori o pericoli di banalità: le note delle
Feuilles mortes (fu la canzone che lanciò Montand nel film
Quando Parigi dorme) e le campagne per la Pace, Stalin e i
manifesti libertari, la frenesia per un esistenzialismo da locale
notturno e la lettura diligente dell' “Humanitè”, Juliette Grèco
e Maurice Thorez. Alle feste organizzate dal quotidiano del Pcf,
l'arrivo di Yves e Simone, la coppia rossa, coincideva con l'acme
dell'entusiasmo. In versione "impegnata" Casco d'oro
non perdeva tuttavia ai nostri occhi il diritto di rappresentare
l'Eterno femminino francese. Anzi.
Tutto ciò che trovavamo
insopportabilmente retorico nel comunismo italiano - infinitamente
meno convenzionale e polveroso, a dire il vero, del suo omologo
francese - se portava la firma di Simone ci sembrava suggestivo:
perfino l' epilogo, che ha trasformato la coppia rossa in un simbolo
della "marcia indietro", dall'idolatria per il paese-guida
alla denuncia dell'autocrazia che lo governa e vorrebbe opprimere il
resto del mondo. Sbagliavamo? Forse si trattava soltanto di due
commedianti furbi, specializzati in ruoli ideologici? Può darsi. Ma
per quanto riguarda Simone, il Casco d'oro dei film, la Tigre rossa
della cronaca francese, non mi piacerebbe ritirarle la mia postuma
ammirazione. Se proprio pentirsi è obbligatorio, ci sono peccati più
grossi di questo.
“la Repubblica”, 2
ottobre 1985
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