15.11.16

Giuseppe Prezzolini. Tradizione e persuasione (Alberto Asor Rosa)

In occasione della riedidizione presso Liguori de L'arte di persuadere di Giuseppe Prezzolini, apparso in prima edizione nel 1907, “la Repubblica” pubblicò come anticipazione uno stralcio dall'introduzione di Alberto Asor Rosa, che qui riprendo. (S.L.L.)
Giuseppe Prezzolini
Prezzolini apre senza dubbio una strada che è quella, tutta italiana, per cui non si dà comunicazione senza connettervi intrinsecamente un tentativo di persuasione. Comunicare per persuadere; o, meglio, comunicare in modo da persuadere. (...) Con il Gobetti la storia s'interruppe, com'è noto, quando Prezzolini tentò vanamente di persuaderlo a fondare insieme, nell'autunno del 1922, la Società degli Apoti, ovvero la Congregazione di coloro che non le bevono. Si capisce bene che, nella teorica di Prezzolini, i suasores, intesi, a modo suo, sono al tempo stesso apoti: gente seria che sta, aristocraticamente, sopra al gioco delle parti, che non s' immischia e non si sporca; salvo ad usare il suo potere intellettuale per cercare di far andare la barca di qua e di là, secondo logiche che non devono render conto a nessuno. Quanto dell' arte di persuadere prezzoliniana si sia riversata nelle tecniche della propaganda e del discorso fascisti e, ancor di più, nel singolare tipo umano del Mussolini eroe e maschera, condottiero e istrione, è tema che meriterebbe una più approfondita analisi. Ma forse l' influenza più forte è stata esercitata su di un intero filone del giornalismo italiano, così consistente e così continuo da costituire ormai una vera e proprio tradizione, una cifra caratteristica della cultura italiana contemporanea, e in cui, come s'è detto, l'esercizio dell'informare non è mai separato da quello del persuadere, e il grande giornalista è al tempo stesso suasore, attore, uomo di mondo e apota: una tradizione, che da Prezzolini va ad Ansaldo, da Ansaldo a Longanesi, a Benedetti, a Montanelli, Bocca, Scalfari; una tradizione, che, coerentemente con la premessa vociano-prezzoliniana, è al tempo stesso violentemente critica e profondamente solidale con il sistema borghese cui appartiene; e che perciò è costantemente in bilico tra reazione e progressismo, conformismo e anticonformismo, e, per alcuni, tra fascismo e afascismo, o, per meglio dire, tra fascismo e apotismo. Ho accennato all'esistenza di un'ipotesi antagonistica a quella di Giuliano il Sofista. Più che altro, si tratta dell' indicazione di una possibile strada diversa, che però non fu battuta. Ritengo altamente improbabile che, quando il giovane ebreo goriziano Carlo Michelstaedter anche lui allora quasi un ragazzo, dal momento che era nato nel 1887, si fece assegnare nell'autunno del 1908 l'argomento della tesi di laurea, da cui doveva scaturire poi lo scritto noto col titolo La persuasione e la retorica, non conoscesse L'arte di persuadere, pubblicata appena l'anno prima, nella medesima città in cui lui compiva gli studi universitari, ad opera di uno dei più affermati giovani leoni della nuova cultura. Esiste un nesso diretto tra l'argomento delle due opere? Probabilmente non lo sapremo mai. Certo, però, La persuasione e la retorica ha tutta l'aria di essere una risposta all'Arte di persuadere del Sofista, a partire dall'uso profondamente diverso, anzi contrapposto, che Michelstaedter fa del concetto stesso di persuasione. In breve, si può dire che Michelstaedter si colloca drammaticamente fuori del circolo organizzazione-comunicazione-persuasione, che contraddistingue le società contemporanee evolute, e rivendica piuttosto, in nome di una verità che trascende le contingenze, il diritto per ognuno di non farsi convincere e di non convincere.
Si può obiettare che su questo principio non si può fondare un sistema della comunicazione, e del resto Michelstaedter, tirandosi fuori del tutto nell'ottobre del 1910 con un colpo di pistola, s'impediva qualsiasi sviluppo pratico della sua teoria (ammesso che vi avesse mai pensato, cosa che per definizione è da escludere). Però, il fatto che sia difficile, se non impossibile, fondare una teoria della comunicazione sulla verità, non dovrebbe portare ad accettare che una teoria della comunicazione non possa non essere fondata sulla menzogna. In pratica, invece, è quanto accade tutti i giorni. Il colpo di pistola di Michelstaedter continua a risuonare pateticamente come l'eco lontana delle urla di trionfo che accompagnano ancor oggi il successo dei vari Prezzolini.
Ormai lo sappiamo con certezza: è così, e non ci si può fare niente.

“la Repubblica”, 17 maggio 1991  

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