In occasione della
riedidizione presso Liguori de L'arte di persuadere di
Giuseppe Prezzolini, apparso in prima edizione nel 1907, “la
Repubblica” pubblicò come anticipazione uno stralcio
dall'introduzione di Alberto Asor Rosa, che qui riprendo. (S.L.L.)
Giuseppe Prezzolini |
Prezzolini apre senza
dubbio una strada che è quella, tutta italiana, per cui non si dà
comunicazione senza connettervi intrinsecamente un tentativo di
persuasione. Comunicare per persuadere; o, meglio, comunicare in modo
da persuadere. (...) Con il Gobetti la storia s'interruppe, com'è
noto, quando Prezzolini tentò vanamente di persuaderlo a fondare
insieme, nell'autunno del 1922, la Società degli Apoti, ovvero la
Congregazione di coloro che non le bevono. Si capisce bene che, nella
teorica di Prezzolini, i suasores, intesi, a modo suo, sono al
tempo stesso apoti: gente seria che sta, aristocraticamente,
sopra al gioco delle parti, che non s' immischia e non si sporca;
salvo ad usare il suo potere intellettuale per cercare di far andare
la barca di qua e di là, secondo logiche che non devono render conto
a nessuno. Quanto dell' arte di persuadere prezzoliniana si sia
riversata nelle tecniche della propaganda e del discorso fascisti e,
ancor di più, nel singolare tipo umano del Mussolini eroe e
maschera, condottiero e istrione, è tema che meriterebbe una più
approfondita analisi. Ma forse l' influenza più forte è stata
esercitata su di un intero filone del giornalismo italiano, così
consistente e così continuo da costituire ormai una vera e proprio
tradizione, una cifra caratteristica della cultura italiana
contemporanea, e in cui, come s'è detto, l'esercizio dell'informare
non è mai separato da quello del persuadere, e il grande giornalista
è al tempo stesso suasore, attore, uomo di mondo e apota: una
tradizione, che da Prezzolini va ad Ansaldo, da Ansaldo a Longanesi,
a Benedetti, a Montanelli, Bocca, Scalfari; una tradizione, che,
coerentemente con la premessa vociano-prezzoliniana, è al tempo
stesso violentemente critica e profondamente solidale con il sistema
borghese cui appartiene; e che perciò è costantemente in bilico tra
reazione e progressismo, conformismo e anticonformismo, e, per
alcuni, tra fascismo e afascismo, o, per meglio dire, tra fascismo e
apotismo. Ho accennato all'esistenza di un'ipotesi antagonistica a
quella di Giuliano il Sofista. Più che altro, si tratta dell'
indicazione di una possibile strada diversa, che però non fu
battuta. Ritengo altamente improbabile che, quando il giovane ebreo
goriziano Carlo Michelstaedter anche lui allora quasi un ragazzo, dal
momento che era nato nel 1887, si fece assegnare nell'autunno del
1908 l'argomento della tesi di laurea, da cui doveva scaturire poi lo
scritto noto col titolo La persuasione e la retorica, non
conoscesse L'arte di persuadere, pubblicata appena l'anno
prima, nella medesima città in cui lui compiva gli studi
universitari, ad opera di uno dei più affermati giovani leoni della
nuova cultura. Esiste un nesso diretto tra l'argomento delle due
opere? Probabilmente non lo sapremo mai. Certo, però, La
persuasione e la retorica ha tutta l'aria di essere una risposta
all'Arte di persuadere del Sofista, a partire dall'uso
profondamente diverso, anzi contrapposto, che Michelstaedter fa del
concetto stesso di persuasione. In breve, si può dire che
Michelstaedter si colloca drammaticamente fuori del circolo
organizzazione-comunicazione-persuasione, che contraddistingue le
società contemporanee evolute, e rivendica piuttosto, in nome di una
verità che trascende le contingenze, il diritto per ognuno di non
farsi convincere e di non convincere.
Si può obiettare che su
questo principio non si può fondare un sistema della comunicazione,
e del resto Michelstaedter, tirandosi fuori del tutto nell'ottobre
del 1910 con un colpo di pistola, s'impediva qualsiasi sviluppo
pratico della sua teoria (ammesso che vi avesse mai pensato, cosa che
per definizione è da escludere). Però, il fatto che sia difficile,
se non impossibile, fondare una teoria della comunicazione sulla
verità, non dovrebbe portare ad accettare che una teoria della
comunicazione non possa non essere fondata sulla menzogna. In
pratica, invece, è quanto accade tutti i giorni. Il colpo di pistola
di Michelstaedter continua a risuonare pateticamente come l'eco
lontana delle urla di trionfo che accompagnano ancor oggi il successo
dei vari Prezzolini.
Ormai lo sappiamo con certezza: è così, e non ci si può fare niente.
Ormai lo sappiamo con certezza: è così, e non ci si può fare niente.
“la Repubblica”, 17
maggio 1991
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