Una lettura “liberale”
del fenomeno Bergoglio, discutibile ma molto interessante, è quella
che si legge in questa breve intervista, che merita verifiche e
approfondimenti. (S.L.L.)
La parola popolo è tra
le più usate da Bergoglio, dopo Dio e chiesa. «Questo non deve
stupire», sostiene Loris Zanatta, professore di storia dell’America
latina all’università di Bologna e autore de La nazione
cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio
(Laterza, 2015). «Francesco può a tutti gli effetti essere definito
un papa populista, se si usa il termine come strumento analitico e
non nel senso negativo a cui siamo abituati. Il suo popolo non è
però quello della tradizione illuminista, ma è il popolo della
tradizione latinoamericana di cui il peronismo è stato il più
tipico caso: una comunità organica, riflesso della volontà divina.
Una sorta di “popolo mitico”, come lo ha definito il papa».
Da questo punto di vista
il populismo di Bergoglio presenta similitudini con quello di Donald
Trump. «Entrambi», osserva Zanatta, «condividono la critica
radicale della globalizzazione, evocano un popolo unito, in armonia,
minacciato dalla disgregazione sociale. Evocano un mondo che va a
rotoli e promettono una redenzione: protezione, un senso d’identità
perduta, un senso di destino». Ciò che li allontana è il tipo di
salvezza: «Bergoglio è per la globalizzazione della solidarietà,
un ritorno a un’antica civiltà cattolica in cui il popolo era
intriso di valori evangelici. Una comunità organica tipica della
tradizione latinoamericana visceralmente antiliberale, come tutti i
populismi latini e cattolici, che siano Chavez, Peron, Castro o
Podemos in Spagna. Un populismo che nelle estreme conseguenze può
sfociare nel totalitarismo». Diverso il mondo anglosassone. «Per
quanto radicale, Trump propone il ritorno alla grande America, al
mito di un popolo iper-liberale e individualista che non tollera i
vincoli imposti dallo Stato e che però non ha alternativa alla
democrazia liberale. In tal senso, per la democrazia liberale il
populismo del papa è, sulla carta, più eversivo di quello di
Trump».
Anche il binomio
malattia/corpo ricorrente nei discorsi di Bergoglio, osserva Zanatta,
«viene dal cattolicesimo nazional-cattolico argentino, imbevuto di
una visione organicistica in cui ogni individuo è sottomesso alla
collettività, tutto è in armonia per volontà divina e dove i mali
del mondo sono visti come attentati alla salute di quel corpo. La
metafora del mondo come corpo malato, a causa dell’allontanamento
da Dio verso il secolarismo, è il presupposto apocalittico della
redenzione. Da qui i continui riferimenti del papa al cambiamento.
Una visione tipica dei monoteismi che Francesco esaspera,
trasponendola sul piano sociale ed economico».
Per Zanatta questa
concezione «è preoccupante perché tende a sottoporre i diritti
dell’individuo al benessere di una collettività, chiamata popolo,
che non lascia spazio al pluralismo e riduce la vita politica e
sociale a un’eterna lotta tra bene e male, una guerra di religione
costante. Non a caso il papa non parla mai della dimensione
politico-istituzionale, di democrazia, diritti individuali, Stato di
diritto».
Eppure – dai gay al
perdono per l’aborto – Bergoglio appare più aperto dei
predecessori. «Dal punto di vista dei diritti e del riconoscimento
dell’appartenenza alla chiesa di categorie prima escluse», ammette
Zanatta, «il papa è di certo più “liberale”. Ma attenzione.
Per Bergoglio la cattolicità è un fattore di organizzazione del
mondo. Se per Ratzinger, cresciuto in Germania, la chiesa è una
parte minoritaria di una società ormai secolarizzata che va difesa
nella sua ortodossia, un gruppo di pochi ma puri, per Francesco la
chiesa deve includere tutti per plasmare il mondo sulla dottrina
cattolica. Ratzinger era più tollerante e rispettoso del pluralismo,
mentre Bergoglio è fautore di una riconquista cristiana assai meno
tollerante verso la secolarizzazione».
Pagina 99, 26 novembre
2016
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