15.11.16

Truman Capote. Perché morì disperato (Nico Naldini)

Truman Capote a Bangkok nel 1957 in una foto di Cecil Beaton
Lo sguardo a sangue freddo
Chiunque avrebbe voluto essere Truman Capote; godere del suo successo letterario e rispettivi guadagni e del suo successo mondano, con relativo nomadismo, dall’isola di Duke alla casa svizzera di Charlie Chaplin; ad altre ville e ad altri castelli. Anche le sue relazioni omosessuali, benché investite da crisi tempestose, avevano finito per consolidare la sua vita, mentre il personaggio Capote si imponeva anche attraverso gli inquietanti scatti di Cecil Beaton. Inquietanti non per l’attimo fuggente; al contrario perché fissavano il personaggio in una sorta di definitiva dinamica del suo carattere e forse del suo destino.
Resta da capire come manovrare i segreti del suo stile perché tanti suoi racconti sarebbero piaciuti anche al dottor Cechov: quello su Marilyn Monroe, ad esempio, incontrata a un funerale e perduta sul ponte di Brooklyn; sparita, ma non in una terrestre latitudine.
Attorno a lui una selezionatissima cerchia di «divini mondani» avevano creduto, poveri illusi, di aver trovato il poeta di corte, lo storico dei loro brividi, il garrulo testimone di una vita dai riti non comuni. Invece tutto a un tratto questi happy few dei miliardi, compresi gli «stupidi agnelli», si videro infilzare come quaglie allo spiedo.
L’unico veramente «divino» era rimasto lo scrittore, a sua volta così ingenuo da aspettarsi un ennesimo plauso per quei pettegolezzi così ben cesellati. E invece si abbatté su di lui la condanna considerata più severa: l’espulsione dai riti mondani. Una cosa risibile solo per chi non sa che cadere fuori dal giro, per qualcuno è peggio che morire: Proust e Maugham insegnano. Oggi solo i giornalisti specializzati ricordano i nomi di costoro: sic transit gloria mundi, ma non quella dello scrittore che comunque fu colpito da grande infelicità. Truman Capote appartiene, in una visione molto semplificata, alla categoria degli artisti autodistruttivi. Se ci riferiamo al nostro ambiente non possiamo non pensare, et pour cause, al pittore-poeta Filippo De Pisis. Questo processo intuitivo può essere plausibile, e tuttavia resta molto difficile stabilire in quale momento le forze autodistruttive si mettono in moto. Magari al culmine di una carriera di esuberanze esistenziali, di intrepida raccolta - sempre tempestiva, up to date - dei doni della vita per introdurvi nel più esigente degli spettacoli che è quello della trasfigurazione artistica.
Questo momento di esplosione della crisi e dell’avvio del processo di inversione, sarebbe degno di un mito moderno: per Truman Capote io credo sia cominciato non già quando venne messo in castigo dall’alta società, ma molto prima quando posò per la prima volta lo sguardo sui due giovani assassini di A sangue freddo.
Capote ne ha raccontato la storia fino all’esecuzione sulla sedia elettrica, compiendo fino in fondo, eroicamente, il proprio dovere di grande cronista di questo secolo. Ha descritto il Male del mondo di cui i due assassini erano agenti e vittime in una sorta di tragica ambiguità. Il Male che ha agito dentro e fuori di essi è eterno incubo degli gnostici che continua a scorrere sotto le fasi delle nostre sorti magnifiche e progressive.
A Capote si è rivelato come il volto della Medusa e a questa rivelazione egli deve la sua triste fine.

"alias- il manifesto", 7 agosto 1999

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