21.12.16

Cassola, un pacifista in città (Marcello Benfante)

Nel 1977, all'acme cioè degli anni di piombo, appariva per le edizioni Il Vespro di Palermo una lunga intervista di Antonio Cardella a Carlo Cassola intitolata Conversazione su una cultura compromessa. Dieci anni dopo Cassola moriva, settantenne, quasi ai margini di una società letteraria che aveva colpevolmente scordato grandi romanzi come La ragazza di Bube e Il taglio del bosco. Ma dopo altri dieci anni il libretto veniva ripubblicato per i tipi delle Edizioni e/o nella collana Piccola biblioteca morale diretta da Goffredo Fofi.
Anche a voler cedere a suggestioni numerologiche, non occorre certo aspettare lo scadere di altri due lustri per rileggere quel pamphlet e tornare a prendere in rispettosa considerazione la prosa limpida e il pensiero candido di uno dei nostri maggiori scrittori contemporanei. Ovviamente, nel riesaminare le tesi rigorosamente estreme di quell'opuscolo contrassegnato da un lucido pessimismo catastrofico non possiamo non tener conto del fatto che ci separa da esso quasi un quarto di secolo. A ridosso del tumultuoso 77, Cassola era venuto più volte a Palermo per portare avanti il suo discorso «disarmista» in vivaci assemblee tenute nelle aule universitarie e nelle scuole cittadine. Cardella lo aveva poi raggiunto nella sua villa di Marina di Castagneto per riprendere le fila di un colloquio i cui temi fondamentali erano il pacifismo e l'antimilitarismo, ma che fatalmente doveva allargarsi ad altre questioni (anch'esse importantissime, ma per Cassola in un certo senso secondarie) come le istanze libertarie dei movimenti giovanili, le reazioni autoritarie, quando non totalitarie, dei poteri statali, il coraggio e l'acquiescenza degli intellettuali.
Nella sua introduzione, Fofi esprimeva un rammarico anche autocritico per la generale disattenzione intervenuta censoriamente nei confronti del Cassola scrittore la cui delicata poetica del «subliminale» era stata derisa e archiviata dall'ipermodernismo delle avanguardie. D'altronde, in quegli anni incombeva da un lato la deriva del terrorismo «con la sua miriade di fiancheggiatori e tutti i loro tremendi e tolleranti equivoci e distinguo», dall'altro l'ottimismo illusorio e ipocrita del craxismo con i suoi compromessi e la sua trionfante demagogia: forbice dilaniante che non costituiva certo il clima politico più adatto ad accogliere l'appello visionario della rivoluzione pacifista di Cassola. Appello disperato e folle, in senso erasmiano, del tutto ignorato dai mass media e quindi destinato a diventare inascoltata voce nel deserto: «ossessione totalizzante» che Fofi paragona (pur sottolineandone la fondamentale alterità) a quella altrettanto radicale, ma anche violenta, di Günther Anders, per poi invece ricondurla, sulla scia di padre Balducci, alla mite lezione di Aldo Capitini e agli incubi di Primo Levi.
Se per quest'ultimo il mondo era stato irreversibilmente mutato e perduto dallo scandalo blasfemo dell' olocausto, per Cassola il destino dell' umanità e della Terra era cambiato abissalmente con Hiroshima e Nagasaki: «Forse è finita la storia ed è cominciata l'era atomica». Ecco dunque il senso delle sue proposte anarcoilluministe per il disarmo unilaterale dell'Italia e contro l'articolo 52 della nostra Costituzione, per il quale la difesa della patria è un sacro dovere del cittadino soldato. Per Cassola, infatti, «ogni Stato sovrano armato è garanzia che la terza guerra mondiale verrà e distruggerà il mondo», giacché anche i sistemi democratici, al pari dei regimi dittatoriali, sono «guerrafondai», in quanto provvisti di eserciti, e rotelline di un esiziale macromeccanismo sistemico.
La distruzione degli arsenali e l'abolizione delle frontiere possono, ovviamente, apparire (o essere) delle ineffabili utopie, ma il sedicente realismo dei Signori della Guerra non è forse un'aberrante distopia? Cassola denuncia una sua verità difficilmente contestabile: «l'umanità è un gigante cieco che va verso il proprio annientamento». Egli è consapevole dell' unica alternativa che resta al genere umano: «o la fine della divisione del mondo o la fine del mondo».
Ora che i muri sono crollati e pianeta ed economia si globalizzano a vertiginosa velocità, continuiamo a temere sempre più un'apocalisse che si annuncia coi più devastanti presagi. Certo, le cose sono cambiate. Parafrasando quel che Tolstoj pensava delle famiglie, possiamo dire che anche ogni movimento contestatario «è infelice a suo modo», benché risuoni ancora l'eco (sinistra) delle parole del Manifesto di Port Huron del 1962: «Guardiamo con preoccupazione al mondo di cui siamo eredi». Tuttavia, quell'ormai vecchio libretto palermitano non è del tutto obsoleto ed anzi conserva, per certi aspetti, una sua integra attualità, che consiste nella consapevolezza che la forza dell' uomo scaturisce dal suo essere inerme e dalla sua «indisponibilità alla violenza».
Forse la Sicilia può ancora, magari ricordando il gandhismo di Danilo Dolci, farsi portatrice di valori nel contempo rivoluzionari e pacifisti in una stagione così confusa in cui perfino taluni fautori di un' opposizione non violenta alla globalizzazione sentono l'esigenza di indossare una divisa, fare proclami squillanti, usare termini bellicosi, darsi grotteschi obiettivi da manovra militare tragicamente all' incrocio tra un sentiero luminoso e la via Paal.


“la Repubblica”, ed. Palermo, 26 agosto 2001  

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