Guido Almansi (1931-2001) |
C'è una differenza
fondamentale tra la critica delle arti visive e dello spettacolo da
una parte, e quella letteraria dall'altra; si tratta del diritto alla
citazione, che è un privilegio quasi esclusivo di quest'ultima. Se
io scrivo su una poesia, o su un romanzo, il modo migliore per
esprimere la mia opinione è la citazione, con la quale cerco di
convincere il mio lettore della genuinità e della validità del mio
entusiasmo o del mio disprezzo. Una tonnellata di giudizi critici,
magari suffragati da una fortissima impostazione teorica, non
potranno mai avere la forza d'urto di una citazione, se impiegata
bene e sostenuta da una presentazione, come dire, fervente.
A quelle anime mediocri
che continuano a disprezzare per motivi moralistici la poesia del
Seicento, di Giovanbattista Marino per esempio, o a quelle anime
pusille che non riconoscono la grandezza sublime della poesia di
Montale, basta sbattergli in faccia la citazione; come potete negare
la luminosità di quel verso, la seduttività di quella strofa? E, se
lo fanno, devono prendersi la responsabilità: non verso un'entità
astratta, come la lirica di Marino o la poesia di Montale, ma verso
la forza dirompente di quella particolare combinazione di suoni,
distorsione di sillabe, trasposizione di concetti che formano la
spina dorsale di una poesia.
Sul fronte opposto, se si
vuole convincere il lettore o l'ascoltatore della volgarità di un
poeta o di uno scrittore, la cosa migliore è sempre citarlo. Io
posso proclamare ai quattro venti che Aldo Busi non è uno scrittore,
ma queste dichiarazioni generiche non avranno mai l'impatto di una
citazione dai suoi libri: quelle dune torride, quegli aggettivi
basici della scrittura busica che sono segno lampante della modestia
stilistica e della inesistenza estetica del romanziere. Certo, esiste
anche la citazione in malafede, fuori contesto, che può per esempio
celare brutalmente la coloritura ironica di una frase, di un brano di
dialogo, ma qui entra in gioco l'elemento di rischio: rischio
dell'onore e della dignità professionale di un critico. Se io
attacco Guido Gozzano perché scrive una frase come Ti piacerebbe
morire?, ignorando il fatto che queste parole sono messe in bocca
a un'educanda appena uscita di convento che si rivolge a un'altra
educanda nella poesia L'amica di Nonna Speranza, io posso
ottenere un vantaggio momentaneo nel dibattito critico, ma a lungo
andare devo essere sconfitto perché la mia citazione è in malafede.
In ultima istanza, la prova decisiva è la citazione.
Ahimè, quando ho
cominciato a fare il critico teatrale, mi sono accorto che questa
arma bianca, questa arma da taglio, la citazione, con cui potevo
difendermi dagli avversari e contrattaccare, sostenendo le mie
posizioni con infilzate, fendenti e a fondo, non era più a mia
disposizione. Certo, a esaltazione o a scorno di un testo teatrale,
posso a volte citare una battuta come segno della grandezza o della
piccolezza di un testo; ma, mentre in letteratura è proprio la
citazione il punto cruciale del discorso critico, nella critica delle
arti visive o dello spettacolo la citazione ha un ruolo assolutamente
secondario. Io ho un bel criticare la cadenza reboante ma monotona di
un attore, l'insensibilità critica di una lettura, la volgarità di
un'interpretazione: le mie parole sono suoni al vento perché non
posso citare. Da qui, la necessità di un maggiore apporto della
retorica nel discorso del critico d'arte, di teatro o di cinema.
Qui parlo del critico
militante: non del critico d'arte che illustra l'iconografia di un
quadro, del critico di teatro che sbroglia la matassa delle fonti di
una commedia shakespeariana, del critico cinematografico che mi
spiega l'ideologia di Tornatore o di Tavernier. Parlo del critico
d'assalto che va a vedere una mostra, uno spettacolo teatrale, un
film, come un corrispondente di guerra sulla linea del fronte, e fa
un reportage della sua esperienza. Questo professionista della
critica è costretto dall'impossibilità di citare a ricorrere a una
serie di manovre retoriche, che sono spesso puri sostituti della
citazione.
Mi è capitato
recentemente, per motivi editoriali, di rileggere sia le mie critiche
di libri, sia quelle teatrali, degli ultimi anni. Nel confronto fra i
due generi giornalistici, mi sono reso conto quanto fosse più alto
il tasso di retorica nelle mie critiche teatrali; c'erano più
iperboli, più paragoni, più paradossi, più litoti, più ossimori.
In generale, l'uso del linguaggio era più metaforico. Questa non è
la scoperta dell' America; è una costatazione empirica da parte di
un critico che fa due mestieri. Credo che il problema della necessità
della retorica sia altrettanto vero tanto per la critica
cinematografica quanto per quella teatrale, e mi interesserebbe
sapere se questa mia preoccupazione per gli eccessi retorici dovuti
all'assenza della citazione sia condivisa dal fronte della critica
cinematografica. E qui avrei una proposta. Da quando ho fatto la
collazione fra le critiche letterarie e quelle teatrali e mi sono
reso conto della sovrabbondanza retorica in queste ultime, mi sono
preso l' impegno di eliminare un artificio retorico, uno e non di
più, dalla versione finale di ogni mia recensione teatrale prima di
mandarla al giornale. Forse così gli articoli peggioreranno, non lo
so, ma la mia rimane una proposta che offro, per quello che vale, ai
colleghi di cinema.
“la Repubblica”13
luglio 1990
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