9.1.17

La monumentalizzazione dello sterminio. Luca Zevi, un architetto (ebreo) contro gli abusi di identità (Mario Pacioni)

Tempi difficili, ma anche stimolanti per chi si incarica di trasmettere la memoria.
Storici, scrittori, artisti e soprattutto architetti devono rispondere a diverse e spesso opposte sollecitazioni. Fra queste forse la più pericolosa è la tentazione di sottrarre la memoria dal più largo contesto storico di provenienza e dal presente con il quale la memoria stessa dovrebbe interagire. Dagli anni ottanta, con l’emergere sempre più prepotente nell’opinione pubblica dei popoli e delle culture che hanno avuto ruolo di vittime nella storia è stata forte la tentazione di fare tabula rasa intorno a essi prescindendo dalla possibilità di fare paragoni e attribuire così all’opera architettonica incaricata di elaborare la loro memoria un’aura di unicità che si impone senza mediazioni e spesso si offre soltanto alla contemplazione vittimistica.
Alla monumentalizzazione del vittimismo si deve poi aggiungere il fenomeno del protagonismo artistico che una parte dell’architettura degli ultimi trent’anni ha perseguito con la realizzazione di progetti il cui criterio principale è stato quello di far spiccare l’opera architettonica a tal punto da prescindere da ogni interazione urbanistica. Come se il fatto di progettare pensando al contesto ostacolasse la riconoscibilità dello stile dell’architetto o non valorizzasse a sufficienza l’opera.
Al di fuori di questa tendenza architettonica si sono orientati i lavori di Luca Zevi responsabile, fra le altre opere, del Memoriale alle vittime del bombardamento del quartiere San Lorenzo e progettista del Museo della Shoah a Roma, oltre che autore del recente libro Conservazione dell’avvenire Il progetto oltre gli abusi di identità e memoria (Quodlibet, 2011). Nell’indovinato paradosso del titolo sta già la chiave d’accesso agli argomenti del libro, che vanno dalla lezione di apertura che l’ebraismo può offrire alla cultura architettonica, al bilanciamento fra sviluppo della città e campagna nella pianificazione del territorio in Cina, alla commistione di chiusura e tolleranza nelle strutture urbane di Teheran Beirut e Tel Aviv, alla considerazione del rapporto tra usi e abusi dell’identità nei progetti dei musei e memoriali della Shoah e di Ground Zero.
A Zevi preme mostrare che per stabilire un rapporto duraturo e istruttivo con il passato occorre non monumentalizzarne il ricordo, ma creare degli spazi pubblici nei quali la memoria si racconti rivolgendosi ad altre memorie nella convinzione che soltanto la comparazione può tenere vivo il ricordo e proiettarlo nel futuro. A tal riguardo, nella parte finale del suo libro, Zevi espone quello che è il suo progetto più ambizioso, quello di un museo delle intolleranze e degli stermini: «non monumento, né memoriale e neppure edificio-contenitore di un itinerario di conoscenza a senso unico. Il MIS sarà luogo di itinerari, scelta fra diverse opzioni di approfondimento e risalita lungo la storia». Un museo nel quale anche la memoria della Shoah saprà forse raccontarsi senza la continua paura di confondersi fra gli altri genocidi dell’umanità.


“alias” 16 luglio 2011

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