3.1.17

Matrone e virtuose nell'antica Roma (Lidia Storoni)

Il basamento con l'epigrafe del perduto
monumento bronzeo a Cornelia nel Foro
Per secoli, la storia delle donne romane è stata raccontata dagli uomini, la loro immagine disegnata senza mezzi termini: la Vestale o Messalina; modelli consacrati dalla tradizione, legati alla struttura del gruppo. Le eroine di cui abbiamo sentito parlare già alle elementari erano campioni di virtù tipologiche, proiettate in un passato favoleggiato; la prima di queste virtù è la castità: la patrizia Lucrezia si toglie la vita per non sopravvivere all' onta dello stupro subìto, la plebea Virginia la uccide il padre per sottrarla alle brame del decemviro Appio Claudio - due morti che scatenarono in tutti e due i casi una rivoluzione sociale. La donna è custode del focolare domestico, come le Vestali di quello di Roma, e vergine come loro, vigile, insonne, responsabile non solo della casa, ma anche del patrimonio spirituale e religioso della famiglia; se è matrona, la iscrizione funeraria che ne tramanda il ricordo su una lapide la definisce sempre pudica, "univira" (vale a dire, d' un uomo solo).
La storia di Roma è costellata di figure esemplari, in versioni talvolta divergenti: quando, in un momento difficile delle guerre Puniche, fu portata a Roma dall' Asia Minore l'immagine della dèa Cibele - il meteorite di Pessinunte - all'entrata del Tevere dal mare la nave si incagliò (succede ancora). Dalla folla accorsa per onorare la divinità straniera uscì una donna (una Vestale, secondo alcuni, una matrona di cattiva fama, secondo altri). Supplicò la dea di testimoniare a suo favore e far tacere le cattive lingue; poi, allacciò la sua cintura alla prua della nave e questa riprese senza intoppi il suo percorso verso Roma. La seconda qualità femminile altamente pregiata perché utile al nucleo famigliare e alla comunità è la parsimonia. Non c'è madre di famiglia che nella iscrizione funeraria incisa sul suo sepolcro non sia definita frugale, operosa, "lanifica", e cioè intenta al telaio, il tipo che non le sfugge niente, fa rigar dritto gli schiavi, tiene le chiavi legate alla cintura e non ha grilli per la testa: ed ecco pronto l'esemplare ampiamente celebrato, Cornelia, madre dei Gracchi; austera, feconda (ebbe dodici figli) certo non aveva il tempo di fermarsi a guardare le vetrine di Bulgari; gli storici parlano dei suoi interessi culturali, dell'élite di intellettuali che frequentavano il suo salotto; ma la battuta che la rende famosa è quella che, dicono, pronunciò quando una matrona amica sua andò a farle visita, tutta fiera dei suoi vistosi monili ed ella, indicando i suoi ragazzi, disse "ecco i miei gioielli". Eppure, sul piedistallo della statua di questa donna, singolare per il carattere e l'ingegno, il suo nome è riferito agli uomini: "Figlia di Scipione Africano - c' è scritto - Madre dei Gracchi". Oggi, nessuno si sognerebbe di fare altrettanto con Madame Curie o Rita Levi Montalcini.
Rivelatori del pregiudizio inconscio sedimentato nella coscienza degli uomini, anche eccelsi, sono gli epiteti che affibbiano a donne passionali, volitive, capaci di esercitare un' influenza nefasta su i loro uomini e, attraverso loro, su la società: "insana" "furens", così Virgilio definisce Didone, che trattiene Enea dal proseguire il viaggio e quindi adempiere alla sua missione (e forse nella "regina" africana ha voluto adombrare Cleopatra, che Orazio a sua volta chiama "fatale monstrum") benché non manchi nell' uno e nell' altro poeta una vena di pietà e di rispetto per le due donne innamorate, entrambe suicide. La tradizione è così forte, la soggezione ai "mores" così imperiosa che diventa un atteggiamento di classe: Livia, la sposa di Augusta, mentre dietro le quinte tesse una sottile tela politica, ostenta una condotta da matrona d'età repubblicana: la lana con la quale si confeziona la toga dell'imperatore è tessuta al telaio da lei; ancora nell'età di Adriano si legge in un epitaffio di una donna la lode antica: "restò a casa, filò la lana".
Come osserva Emanuela Prinzivalli, una degli autori che ha collaborato al bel libro Roma al femminile (Laterza, a cura di Augusto Fraschetti, pagg. 285, lire 30.000), bisogna arrivare alla fine del II secolo per trovare una donna che si sottrae all'autorità del padre, ai suoi doveri di madre, all'imperativo etico della società alla quale apparteneva per proclamare la sua verità: la martire cartaginese Perpetua, che ha lasciato un suo diario dei giorni trascorsi in carcere prima d'essere esposta alle belve nel circo. Una donna parla, espone il suo pensiero, ha acquistato con il cristianesimo una dignità pari a quella dell'uomo; la nuova religione abolisce le differenze di sesso (la fedeltà coniugale è imposta anche ai mariti) e di classe, esalta la forza interiore della donna: una schiava, Blandina, muore tra i tormenti a Lione negli stessi anni, dopo aver fatto coraggio ai suoi compagni di fede; le patrizie romane, nel IV secolo, portatrici di nomi illustri, Fabiola, Paula, Melania, convertite da S. Girolamo si trasferiscono in Terrasanta per vivere nel paese dove Cristo è morto. Una sola grande pagana, erede della Fermezza morale delle compagne degli oppositori stoici di Nerone e di Domiziano; l'astronoma e filosofa Ipazia, insegnante di dottrina neo-platonica, morì ad Alessandria d'Egitto, massacrata da fanatici cristiani, mossi forse, scrive nel suo bel saggio Silvia Ronchey, da moventi politici più che religiosi.


“la Repubblica”, 11 dicembre 1994  

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