27.1.17

Pasolini e Pascoli (Massimo Raffaeli)

Alla voce di Orson Welles, nelle sequenze centrali del cortometraggio La Ricotta (1963), Pier Paolo Pasolini ha forse affidato la più disarmata e incandescente dichiarazione di poetica: «Io sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore./ Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d’altare, dai borghi/ dimenticati sugli Appennini e sulle Prealpi,/ dove sono vissuti i fratelli./ (...) Mostruoso è chi è nato/ dalle viscere di una donna morta./ E io, feto adulto, mi aggiro/ più moderno di ogni moderno/ a cercare fratelli che non sono più». Nei versi si contiene la coscienza d’una sfasatura cronologica (il sentirsi estraneo, un sopravvissuto ostile) e insieme di uno squilibrio percettivo, quasi d’una perdizione: il sapersi divorato da una fame di forme, eventi, corpi chiamati a ribadire una radicale estraneità.
Quando si parla di sperimentalismo, troppo spesso si tace l’assoluta fissità dello sguardo, un sentire che non sembra conoscere varianti di spazio e tempo; viceversa, quando si dice manierismo, alludendone l’estroversione e febbre da engagement (la rincorsa ai fatti, ai destini generali) lo si liquida traducendolo in nostalgico anacronismo. L’anacronismo dei fuochi fatui, dei meteoriti. Un senso comune filisteo perciò gli conferisce rango di classico proprio nel momento in cui sostanzialmente glielo nega scegliendo di volta in volta tra stasi e mobilità, tra il dentro d’ima esperienza poetica refrattaria a ogni assimilazione e il fuori d’una costante presenza civile.
Pasolini è invece un convergere anzi un precipitare di prima e dopo, interno ed esterno, euforia e patimento. Mostruosa è questa lacerazione che non può né sa richiudersi, cicatrizzata in una sintesi. La sua figura fondamentale è l’ossimoro, in cui confliggono invarianza e senso della mutevolezza storica, così come riferimento primario è il Pascoli, analizzato nel saggio inaugurale della rivista Officina (maggio ’55) ma già attivo in lui negli anni di formazione e oggetto della tesi di laurea discussa a Bologna nel novembre del ’ 45 con Carlo Calcaterra, un maestro meno affascinante di Roberto Longhi (che certo Pasolini avrebbe preferito, se non avesse perso nei trambusti dell’8 settembre gli appunti per la tesi sulla pittura italiana contemporanea) ma filologo di grande qualità: la tesi sotto il titolo Antologia della lirica pascoliana, viene adesso edita da Einaudi con apparato di lettere al relatore e successivi interventi pascoliani grazie all’attenta cura di Marco A. Bazzocchi ed Ezio Raimondi.
Non si tratta di un’organica monografia ma piuttosto d’una selezione già appoggiata a un personale percorso d'autore. Frammentando il Pascoli, Pasolini cerca e subito ritrova motivi e consonanze che sono già iscritte nella propria parola; antologizzandolo, è come se riesaminasse per traslato i nuclei e le scelte linguistiche della plaquette d’esordio, le Poesie a Casarsa scritte in friulano e uscite tre anni prima da una piccola antiquaria bolognese.
Nei minimi detriti di Myricae e dei Canti di Castelvecchio (ma anche negli intarsi dei Conviviali), nei particolari capaci di dilatarsi a universali, dimora una contraddizione che è anche la sua, una specie di cortocircuito tra l'immobilità psicologica (così uguale a se stessa da apparire mineralizzata) e una liquidità verbale dilagante: «Si può dire che il Pascoli possedesse nella parola, nel mezzo espressivo la sua unica certezza nell’infinito d’incertezza dov’era immerso». Il diffondersi della parola, inclusiva dall’alto e dal basso secondo un canone pluri-linguistico avviatosi con Dante, rinvia per paradosso ad una situazione psicologica bloccata; il flusso nasconde e nel frattempo allevia il trauma senza mai poterlo appagare: nel cosiddetto infantilismo pascoliano, nella vita depressa e strozzata, Pasolini legge infatti i segni in cifra della propria omosessualità, mentre scopre in quella selva di forme un’autentica matrice spe-rimentalista. Non la rinnegherà. Nel saggio su “Officina”, forte dell’avallo di Contini, farà del Pascoli un crocevia o meglio una funzione in grado di legittimare quanto il Grande Stile novecentesco (il classicismo ermetico, il neorealismo della cattedra) sequestra oppure rimuove: il calore dell’esistenza, il germinare degli idiomi, l’universo muto e reietto del sentire popolare. Come per il fanciullino del Pascoli, per chi mai ha avuto accesso alla parola, la lingua è sempre altra, sorgiva, è una lingua di Adamo che restituisce alle cose i loro semplici nomi. «Per noi ormai lo scrivere in friulano è un fortunato mezzo per fissare ciò che i simbolisti e i musicisti dell”800 hanno tanto ricercato (e anche il nostro Pascoli, per quanto disordinata-mente) cioè una ’melodia infinita(...)»: quando Pasolini scrive queste parole, già da quattro mesi ha discusso la tesi ed è tornato in Friuli, a Casarsa.
Nei campi del Friuli, nei corpi e nella voce intatta degli adolescenti scampati alla guerra, il poeta proietta l’utopia di una lingua non ancora scissa dalla nuda esperienza, d’un pronunciare che fuori delle angustie vernacole corrisponda alla grazia del sentire; un mondo che finalmente sappia ricomporre la lacerazione tra l’umiltà della vita e la ricchezza delle forme che la esprimono.
Nico Naldini, che ne fu sodale testimone, recupera oggi questi scritti friulani di Pasolini in Un paese di temporali e di primule (Guanda), ordinandoli secondo la materia (frammenti di narrativa, testi di linguistica, note di politica e di pedagogia) e premettendo al volume una lunga memoria biografica che a sua volta è un esempio di filologia in atto, di critica tradotta senza residui in narrazione. Diseguali nel taglio, le pagine pasoliniane consuonano con la calma bellezza di un assetto naturale antico ma ormai prossimo a sciuparsi, se infatti vi si insinua un filo di disperazione: «Odore di terra romanza, di area marginale. Sulla dolcezza dell’Italia moderna c’è come il rigido, fresco riflesso d’un’Italia alpestre dal sapore neolatino ancora stupendamente recente». La forza del passato, l’umile Italia dei fratelli che non sono più.

“Il manifesto – la talpa giovedì”, 10 febbraio 1994


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