8.1.17

"Scattïari" (S.L.L.)

Nel mio dialetto nativo (Campobello di Licata) “scattïari” è un verbo derivato da “scattari” (schiattare, esplodere). L'aggiunta della i allungata dalla dieresi equivale al suffisso -eggi della lingua italiana (“passari = passare; “passïari = passeggiare), intensivo e/o iterativo. “Scattïari” può essere usato transitivamente e, più di rado, intransitivamente. In tutti e due i casi quel che il verbo sottolinea è l'estrema rapidità dell'azione. Per esempio il significato dell'espressione “scattïà comu un furgaru” può essere, a seconda del contesto, “scattò veloce come un mortaretto” (per indicare un uomo, un sorcio o un altro animale che scappa via a tutta velocità) o “esplose come una folgore” (a segnalare un irrefrenabile scatto d'ira). Più spesso il verbo è usato transitivamente: “scattïari 'na timpulata” equivale a “mollare un ceffone di scatto”. C'è in questo uso una sfumatura di significato rispetto a “cafuddrari”, che fa riferimento alla forza d'urto e talora implica la preparazione del colpo. Un “cazzuottu cafuddratu” può essere molto più doloroso di uno “scattïatu”. “Scattïari” ha peraltro una curiosa funzione eufemistica. Nel turpiloquio paesano (un tempo il turpiloquio era linguaggio da taverna, cortile o ballatoio, non da tv o da “social”) c'erano diverse gradazioni. Per mandare qualcuno davvero al diavolo al blando “vafanculu” si preferiva un feroce Va fattilla ficcari 'nculu, con quel riferimento all'organo sessuale maschile che in Sicilia era più spesso designato con nome femminile. Ma si poteva all'occorrenza usare un'espressione egualmente pittoresca, ma meno oscena, “Va fattilla scattïari 'nsacchetta”: la “sacchetta” (saccoccia, tasca) non è il retto e il rapido “scattïari” non produce le lacerazioni della penetrazione.

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