31.1.17

Sette novelle per sette spose. Metafore ed eros d'Oriente (Italo Calvino)

Italo Calvino
Appartenere a una civiltà poligamica anziché monogamica cambia certamente molte cose. Almeno nella struttura narrativa (unico campo in cui mi sento d’opinare) s'aprono tante possibilità che l’Occidente ignora.
Per esempio, un motivo molto diffuso nelle fiabe occidentali, l’eroe che vede un ritratto della bella e istantaneamente s’innamora, lo ritroviamo anche in Oriente, ma moltiplicato. In un poema persiano del XII secolo il re Barham vede sette ritratti di sette principesse e s’innamora di tutte e sette in una volta. Ciascuna d’esse è figlia d’un sovrano d’uno dei sette continenti; Bahram le chiede in moglie una per una e le sposa. Fa poi innalzare sette padiglioni, ognuno d’un colore diverso e «costruiti secondo l’indole dei sette pianeti». A ognuna delle principesse dei sette continenti corrisponderà un padiglione, un colore, un pianeta e un giorno della settimana; il re farà una visita settimanale a ognuna delle spose e ascolterà dalla sua voce un racconto. I vestiti del re saranno del colore del pianeta di quel giorno e le storie raccontate dalle spose saranno egualmente intonate al colore e alle virtù del pianeta rispettivo.
Questi sette racconti sono fiabe piene di meraviglie tipo le Mille e una notte, ma hanno ognuno una finalità etica (anche se non sempre riconoscibile sotto il manto simbolico) per cui il ciclo settimanale del re-sposo è una ricognizione delle virtù morali come corrispettivo umano delle proprietà del cosmo. (Poligamia carnale e spirituale dell’unico maschio-re sulle molte spose-ancelle; nella tradizione il ruolo dei sessi è irreversibile e su questo punto non c’è da aspettarsi nessuna sorpresa). I sette racconti a loro volta comprendono vicende amorose che si presentano in forma moltiplicata rispetto ai modelli occidentali.
Per esempio, lo schema tipico della fiaba d’iniziazione vuole che l’eroe passi attraverso varie prove per meritarsi la mano della fanciulla amata e un trono regale. In Occidente questo schema esige che le nozze siano tenute in serbo per il finale, oppure, se avvengono nel corso del racconto, precedono nuove vicissitudini, persecuzioni o incantesimi, in cui la sposa (o lo sposo) viene prima perduta e poi ritrovata. Invece qui leggiamo una fiaba in cui l’eroe a ogni prova che supera si guadagna una nuova sposa, più altolocata della precedente; e queste spose successive non si escludono a vicenda ma si sommano come i tesori d’esperienza e saggezza accumulati durante la vita.
Sto parlando d’un classico della letteratura persiana medievale, oggi accessibile in un volumetto della Bur edito con cura encomiabile: Nezami, Le sette principesse, introduzione e traduzione di Alessandro Bausani, note di Alessandro Bausani e Giovanna Calasso, Rizzoli. Accostarci ai capolavori della letteratura orientale per noi profani resta il più delle volte un’esperienza approssimativa, perché è tanto se attraverso le traduzioni e gli adattamenti ce ne arriva un lontano profumo, e sempre arduo risulta situare un’opere in un contesto che non conosciamo; questo poema in particolare è certo un testo quanto mai complesso per fattura stilistica e implicazioni spirituali. Ma la traduzione di Bausani (che appare minuziosamente aderente al fitto tessuto di metafore e non si tira indietro nemmeno davanti ai giochi di parole, riportando tra parentesi i vocaboli persiani), le copiose note, l’introduzione (e anche l'essenziale corredo d’illustrazioni) ci danno, io credo, qualcosa di più dell’illusione di capire che cosa questo libro è, e d’assaporame gli incanti poetici, almeno per quella parte che una traduzione in prosa può trasmettere.
Abbiamo dunque la rara fortuna d’annettere al nostro scaffale dei capolavori della letteratura mondiale un’opera godibilissima e sostanziosa. Dico rara fortuna perché quest’occasione è un privilegio di noi italiani tra tutti i lettori occidentali, se è vero quanto dice la bibliografia del volume: che l’unica traduzione inglese completa del 1924 è scorretta, quella tedesca un parziale libero rifacimento e di francesi non ne esistono. (Nella bibliografia non è invece detto, ma è giusto sia ricordato, che questa stessa traduzione di Bausani era già uscita anni fa per le edizioni «Leonardo da Vinci» di Bari, sia pur con un corredo di note meno ricco.
Nezami
Nezami (1141-1204), nato e morto a Ganjè (nell’Azerbaigiàn ora sovietico; vissuto dunque in un territorio in cui si fondono le stirpi iranica, curda e turca), musulmano sunnita (a quell’epoca gli sciiti non avevano ancora preso il sopravvento in Iran), racconta nelle Sette principesse (Haft Peikar, letteralmente «le sette effigi», databile intorno al 1200, uno dei cinque poemi da lui scritti) la storia d’un sovrano del V secolo, Bahram V, della dinastia sasanide. Nezami dunque rievoca in chiave di mistica islamica il passato della Persia zoroastriana; il suo poema celebra insieme la volontà divina a cui l’uomo deve rimettersi interamente e le varie potenzialità del mondo terrestre, con risonanze pagane e gnostiche (e anche cristiane; viene ricordato anche il grande taumaturgo Isu, ossia Gesù).
Prima e dopo le sette fiabe narrate nei sette padiglioni, il poema illustra la vita del principe, la sua educazione, le sue cacce (al leone, all’onagro, al drago), le sue guerre contro i cinesi del Gran Khan, la costruzione del castello, le sue feste ed ebbrezze, i suoi amori anche ancillari. Il poema è dunque innanzitutto un ritratto del sovrano ideale, in cui si fondono, come dice Bausani, l’antica tradizione iranica del «re sacro» e quella islamica del pio sultano, sottomesso alla legge divina.
Un sovrano ideale — pensiamo noi — dovrebbe avere un regno prospero e sudditi felici. Neanche per idea! Questi sono pregiudizi della nostra mentalità terra terra. Che un re sia un prodigio di tutte le perfezioni non esclude che il suo regno sia angariato dalle ingiustizie più crudeli, in mano a ministri perfidi e avidi. Ma dato che il re gode della grazia celeste, verrà il momento in cui la triste realtà del suo regno si svelerà ai suoi occhi. Allora egli punirà il Vizir infame e darà soddisfazione a chiunque venga a raccontargli le ingiustizie subite: ecco dunque le «storie degli offesi» anch’esse in numero di sette, ma certo meno attraenti che quelle altre.
Ristabilita la giustizia nel regno, Bahram può riorganizzare l’esercito e sbaragliare il Gran Khan della Cina. Adempiuto cosi il suo destino, non gli resta che scomparire: difatti sparisce letteralmente in una caverna, dove s’era spinto a cavallo per inseguire l’onagro che stava cacciando. Il re insomma è, dice Bausani, «l’Uomo per eccellenza»: quel che conta è l’armonia cosmica che in lui s’incarna, armonia che in una certa misura si rifletterà anche sul regno e i sudditi, ma che risiede sopratutto nella sua persona. (Anche oggi, del resto, ci sono regimi che pretendono d’essere lodevoli in sé e per sé, indipendentemente dal fatto che la gente ci viva malissimo).
Le sette principesse insomma fonde in sé due tipi di racconto «meraviglioso» orientale: quello epico-celebrativo del Libro dei Re di Firdusi (il poeta persiano del X secolo da cui Nezami prende le mosse) e quello novellistico che dalle antiche raccolte indiane porterà alle Mille e una notte. Certo il nostro piacere di lettori è più gratificato da questa seconda vena (consigliamo perciò di cominciare dalle sette fiabe e poi risalire alla cornice), ma anche la cornice è ricca d’incanti fantastici e di finezze erotiche (molto pregiate, per esempio, le carezze col piede: «Il piede del re nel fianco di quella rubacuori s’insinuava tra la seta e il broccato»), così come nelle fiabe il sentimento cosmico-religioso tocca punte molto alte. (Si veda la storia del viaggio compiuto insieme da un uomo che si rimette alla volontà di Dio e un uomo che vuole spiegare razionalmente tutti i fenomeni: la caratterizzazione psicologica dei due è così persuasiva che è impossibile non tenere per il primo, il quale non perde di vista la complessità del tutto, mentre il secondo è un saccente malevolo e meschino; la morale che possiamo tirarne è che, più della posizione filosofica, conta 3 modo eli vivere in armonia con la propria verità).
Separare comunque le varie tradizioni che convergono nelle Sette principesse è impossibile perché il vertiginoso linguaggio figurato di Nezami le assorbe nel suo crogiolo, e stende su ogni pagina una lamina dorata tempestata di metafore che s’incastonano le une nelle altre come pietre preziose d’uno sfarzoso monile. Per cui l’unità stilistica del libro appare uniforme, e s’estende anche alle partì introduttive sapienziali e mistiche. (Ricorderò tra quest’ultime la visione di Maometto che sale al cielo in sella a un cavallo angelo, fino al punto in cui le tre dimensioni scompaiono e «il Profeta vide Iddio senza spazio, udì parole senza labbra e senza suono»).
Le fioriture di questo arazzo verbale sono così lussureggianti che i nostri paralleli con le letterature occidentali, al di là delle analogie delle tematiche medievali, e attraversando la pienezza fantastica del Rinascimento d’Ariosto e Shakespeare, vanno naturalmente al barocco più carico; ma perfino l’Adone del Marino e il Pentamerone del Basile sembrano duna laconica sobrietà, paragonati alla proliferazione di metafore che ricopre fittamente il racconto di Nezami sviluppando un germoglio di racconto in ogni immagine.
Questo universo metaforico ha caratteristiche e costanti tutte sue. L’onagro, asino selvatico dell’altipiano iranico — che a vederlo nelle enciclopedie e, se ricordo bene, negli zoo, ha tutta l’aria d’un modesto ciuchino — nei versi di Nezami riveste la dignità dei più nobili animali araldici, e compare si può dire in ogni pagina. Nelle cacce del principe Bahram gli onagri sono la preda più ambita e difficile, citati spesso accanto ai leoni come avversari sui quali il cacciatore misura la sua forza e destrezza. Nelle metafore poi l’onagro è immagine di forza, anche di forza sessuale virile, ma pure di preda amorosa (l'onagro preda del leone) e di bellezza femminile e in genere di giovinezza. E poiché risulta anche avere una carne prelibata, ecco che «fanciulle dagli occhi d’onagro arrostivano al 'fuoco cosce d’onagro».
Altro elemento di metafora polivalente è il cipresso: evocato a indicare robustezza virile e naturalmente anche simbolo fallico, lo troviamo pure a modello di bellezza femminile (la statura è sempre molto pregiata), e associato alle chiome femminili, ma anche alle acque che scorrono e pure al sole del mattino. Quasi tutte le funzioni metaforiche del cipresso valgono poi anche per il cero acceso, più molte altre. Insomma il delirio delle similitudini è tale che qualsiasi cosa può voler dire qualsiasi cosa.
Come pezzi di bravura fatti di metafore una dietro l’altra si ricordano una descrizione dell’inverno, in cui a una serie d'immagini gelide («l’impeto del freddo aveva fatto spada dell'acqua e acqua della spada»; la nota spiega: le spade dei raggi solari diventano pioggia e la pioggia diventa spade di lampi; e anche se la spiegazione non rosse vera, resta sempre una bella immagine) succede un’apoteosi del fuoco, e una simmetrica descrizione della primavera, tutta d’animazione vegetale, tipo «la brezza si dette in pegno al basilico».
Catalizzatori di metafore sono pure i colori, che dominano nelle sette fiabe. Come si fa a narrare una storia tutta d’un colore? Il sistema più semplice è far vestire di quel colore i personaggi, come nella fiaba nera in cui si narra d’una signora che vestiva sempre di nero perché era stata ancella d’un re che vestiva di nero perché aveva incontrato uno straniero vestito di nero che gli aveva narrato d’un paese della Cina tutto di nerovestiti...
Altrove il legame è solo simbolico, basato sui significati attribuiti a ogni colore: il giallo è il colore del sole e dunque dei re; dunque il racconto giallo narrerà d’un re e culminerà in una seduzione, paragonata alla forzatura d’uno scrigno che racchiude l’oro.
Il racconto bianco è inaspettatamente il più erotico di tutti, immerso in una luce lattea in cui vediamo muoversi «fanciulle dal seno di giacinto e dalle gambe d’argento». Ma è anche il racconto della castità, come cercherò di spiegare, per quanto nel riassunto tutto si perda. Un giovane che tra i vari motivi di perfezione ha quello d’essere casto, vede il suo giardino invaso da fanciulle bellissime che danzano. Due di loro, dopo averlo fustigato credendolo un ladro (un certo compiacimento masochista non è escluso), lo riconoscono come padrone, gli baciano mani e piedi e lo invitano a scegliersi quella di loro che più gli piace. Lui spia le ragazze mentre fanno il bagno, fa la sua scelta e (sempre con l’aiuto delle due guardiane o «poliziotte» che per tutto il racconto dirigeranno le sue mosse) s’incontra da solo con la favorita. Ma in questo e negli incontri seguenti succede sempre qualcosa al momento culminante per cui l’amplesso va a monte: o crolla il pavimento della stanza, o un gatto per acchiappare un uccellino piomba sui due amanti abbracciati, o un topo rode il gambo d’una zucca su una pergola e il tonfo della zucca che cade fa perdere al giovanotto l’ispirazione amorosa. Così via fino alla conclusione edificante: il giovane comprende che prima deve sposare la ragazza perché Allah non vuole che lui commetta peccato.
Questo dell’amplesso ripetutamente interrotto è un motivo diffuso anche nel racconto popolare occidentale, ma sempre in chiave grottesca: in un cunto del Basile gli imprevisti che si susseguono somigliano molto a quelli di Nezami, ma ne vien fuori un quadro infernale di miseria umana, sessuofobia e scatologia. Quello di Nezami invece è un mondo visionario di tensione e trepidazione erotica insieme sublimato e ricco di chiaroscuri psicologici, dove il sogno poligamico d’un paradiso d'uri s’alterna alla realtà intima d’una coppia, e la licenziosità scatenata del linguaggio figurato introduce ai turbamenti dell’inesperienza giovanile.


“la Repubblica”, ritaglio senza data, probabilmente 1982

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